Il film, che andrà in onda su RaiUno in prima serata, porta la firma del figlio di Nino, Luca Manfredi, che lo ha scritto con il protagonista, un sensibile e poliedrico Elio Germano. E’ la sua interpretazione a far volare alta la pellicola, prodotta per Rai Fiction da Francesco e Federico Scardamaglia per Leone Cinematografica.
Germano si immedesima nel personaggio allo stesso modo in cui aveva fatto con il Giacomo Leopardi de “Il giovane favoloso” di Martone. Ne mutua non sono i gesti, il sorriso, ma l’andatura un po’ sciatta un po’ dinoccolata. E la voce, calata sull’accento ciociaro, quello che fece di Manfredi un divo del piccolo schermo con il barista di Ceccano e tante altre macchiette.
Il film si restringe agli anni giovanili di Nino e spazia dal 1939 al ‘59.
Saturnino, questo il vero nome dell’attore, è figlio di un maresciallo dei carabinieri, un uomo sanguino e tutto d’un pezzo che sogna per lui la carriera di avvocato e quella di medico per il fratello. Ma è un figlio difficile, Saturnino. Si ammala di tubercolosi a 17 anni e ne passa tre in un sanatorio capitolino, il Forlanini. Si vede morire attorno i compagni di ricovero con i quali improvvisa zingarate, rubando nella mensa o fumando di nascosto le proibitissime sigarette. Suona la chitarra e dispensa ironia a chi sta peggio di lui. Riesce a sfangarla e allora papà Romeo lo vuole iscritto a giurisprudenza. Non gli piace, ma cerca di impegnarsi.
Quel suo genitore è un’affettuosa ossessione: Saturnino se lo immagina accanto quando rinuncia a sostenere un esame, quando si fa la barba e gli viene da imitare la gallina, sistemata nel bagno di casa. E’ il caso che lo fa incontrare con tre giovani allievi dell’Accademia di Arte Drammatica, Tino (con Buazzelli Manfredi farà le prime prove di teatro) e Gianni (Bonagura). Il loro maestro è Orazio Costa Giovangigli, che da loro tirerà fuori il meglio.
E mentre arrivano gli Americani, la penicillina e Roma è città aperta, Saturnino sbarca variamente il lunario. Particine in film, poche battute in teatro, l’avanspettacolo nel quale fa la parte di un cane. La tesi la finisce ma non la discute. “Tanto non farò mai l’avvocato”, dice al collegio esaminatore. E invece di illustrare quanto ha scritto, si produce in un saggio di quello che sta preparando con Costa per il palcoscenico: l’Arlecchino servo di due padroni di Goldoni.
Poi arriva l’amore vero. Il film racconta una storia un po’ diversa da quella realmente accaduta. Nino ha il colpo di fulmine una sera in cui con i due inseparabili Tino e Gianni va a fare una serenata a pagamento a una promessa sposa. Il fidanzato è il committente, ma si rivela un lestofante che durante la serata ruba al padre della ragazza tutti i soldi prelevati per far decollare il futuro della coppia.
Saturnino in un primo momento è accusato con gli amici del furto, poi, e qui la sceneggiatura è un po’ sbrigativa, è scagionato. Ma trova il modo di incontrare di nuovo Erminia, l’indossatrice dai grandi occhi verdi. Si sposano in un batter d’occhio e arrivano pochi anni dopo i denari per una bella casa, i due primi figli e il successo. Perché il film si chiude con una telefonata in casa Manfredi: “E’ la Rai”, gli dice Erminia. Lui scambia qualche battuta, poi le annuncia: “Mi hanno chiamato per Canzonissima”.
I pregi della pellicola sono nella bella prova di tutti gli interpreti (oltre a Germano, Miriam Leone nella parte di Erminia, Paola Minaccioni, Leo Gullotta, Giorgio Tirabassi, Stefano Fresi, Duccio Camerini, Anna Ferrazza) e nella cura dell’ambientazione, che tira fuori anche le insegne d’antan della Lavazza (ricordate il manfrediano “Più lo mandi giù e più ti tira su”?) e dei costumi. Qualche ingenuità, o qualche accento patetico/retorico di troppo mostra la sceneggiatura, per esempio nella lunga parte iniziale ambientata in sanatorio. Ma regala anche invenzioni godibilissime, come il sogno “erotico” di Saturnino con la procace infermiera dell’ospedale, che immagina di rincorrere in un campo di grano alto e di carezzare al suo felliniano concedersi in guepiere.
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Sul red carpet del Fiction Fest, Elio Germano, generoso di dichiarazioni, ha svelato la devozione all’attore di Castro dei Volsci. “Il suo era un cinema senza l’ossessione del profitto, che voleva raccontare il Paese con la spontaneità dell’uomo e il rigore imparato in Accademia. Fare l’attore era come espletare altri mestieri, ma ci si immergeva nel lavoro con onestà. Perché resisteva un’idea di collettività molto forte”.
Peccato che ad applaudire il cast non ci fosse una gran folla sotto i portici di piazza Esedra, anfiteatro del The Space Cinema Moderno dove si tiene la manifestazione, che durerà fino domenica 11 con ingresso gratuito. E peccato che il pubblico e la stampa accreditata abbiano sofferto di una grossa carenza organizzativa: la pellicola è cominciata con quasi un’ora di ritardo rispetto all’orario previsto (le 21). La sala è rimasta a guardare lo schermo bianco in attesa del cast che non è mai arrivato, attardandosi invece nella sala attigua, dove il film si proiettava a inviti.