Cristiano, perché questo titolo, Invisibili?
“E’ un brano intimo, acustico, dove parlo di me, della mia Genova, di tanti ragazzi invisibili, di diciotto o vent’anni, tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ’80, in mezzo allo scontro sociale. Anni nei quali, a Genova, erano arrivate le droghe pesanti a incunearsi negli sfasci familiari”.
C’è qualcosa di autobiografico?
“No. Per fortuna io ho avuto due genitori aperti, con i quali potevo ragionare e discutere anche di argomenti complessi. La passione per la musica ed il Conservatorio sono state la mia salvezza: se ti ritrovi senza alternative, di fronte all’eroina, precipiti, finisci male. E questa canzone è dedicata ad un mio amico che ha perso la vita per overdose”.
Sempre in Invisibili, c’è un verso significativo: “E la mia incudine era un cognome inesorabile”…
“Io ero conosciuto solo come ‘il figlio di Fabrizio De Andrè’. Le persone mi parlavano solo per quel motivo, mi stimavano, solo in funzione di quello. Ho lottato. Ho studiato. Poi, ne ho parlato con lui, dicendogli che avevo trovato un mio rifugio, un mio equilibrio. E mio padre mi porto in tournée, mi fece suonare molti strumenti che, fino a quel momento, aveva suonato un maestro come Mauro Pagani e il nostro rapporto è cambiato. Purtroppo è mancato quando l’avevo conquistato”.
Ligabue, la prima sera del Festival, ha fatto un omaggio a suo padre, cantando un brano strettamente genovese, lui che è emiliano. Eppure suo padre non aveva mai partecipato al Festival.
“Non vedeva male Sanremo, ma era scioccato dalla morte di Luigi Tenco e lo ha sempre considerato un luogo da evitare”.
Lei, invece, ci venne per la prima volta, giovanissimo, nel 1985. Allora che cosa le disse suo padre?
“Che facevo bene. E fu felice quando arrivai secondo nel ’93 con Dietro la porta. I nostri rapporti non sono stati sempre facili e portare quel cognome è stato inesorabile, una grossa responsabilità, ma credo che oggi avrebbe apprezzato la mia coerenza. Glielo avevo promesso. Ricordo che tutto partì da un concerto al Brancaccio, a Roma, in cui presi il posto di Mauro Pagani. Da allora iniziò a trattarmi da amico, come gli altri musicisti. Ma quando avremmo potuto lavorare insieme si è ammalato”.
Per la serata Sanremo Club, lei ha presentato Verranno a chiederti del nostro amore, scritta da suo padre ed inserita nell’album del ‘73, Storia di un impiegato. Perché proprio questa canzone?
“Ricordo come se fosse adesso quando l’ho ascoltata per la prima volta. L’ho scelta perché mi ricorda una mattina del ’72. Avevo dieci anni, erano le cinque di mattina e, di nascosto, ho visto mio padre cantarla in salotto a mia madre Puny, che per l’emozione stava piangendo. E’ stato un modo per ricordarli, ora che non ci sono più entrambi”.