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La regista, che affianca alacremente la realizzazione di pellicole all’attività di direttore editoriale per Bompiani, dedica al delta del Po – chilometrica nicchia che culla lo sposalizio del maggior fiume italiano con il mare e che crea un ambiente unico per specie animali e vegetali e anche per inclinazione delle proprie genti – un poema in due parti, in attesa di completare una terza, per una trilogia assai particolare.
Un poema, sì, che però alterna oggettività e soggettività. E infatti nel primo docu , “Per soli uomini”, la macchina da presa, portata a spalla, registra senza intrusioni la giornata di tre allevatori di pesce nella valle di Maistra. Nella seconda, “Il pesce siluro è innocente”, la fotografia, la regia, la musica di Franco Battiato, i testi recitati dalla voce narrante Michela Cescon si sommano alle immagini e ai dialoghi, anche qui in presa diretta, di gente che dall’ecosistema padano, dalla silenziosa distesa d’acqua, trae lavoro, affetti, paure, sogni, speranze, rimpianti.
I rimpianti, prima di tutto. Per quello che era e non è più, per le orate che non si riproducono con la stessa abbondanza di una volta, come, nella lingua padana scivolosa come la melma che avvolge gli argini, si rammaricano i tre allevatori protagonisti di “Per soli uomini”. Claudio, Gabriele e il pensionato soprannominato “Bertinotti” vivono in solitudine le giornate di lavoro. E in silenzio, che rompono solamente per sbrigative intese sulle mansioni da espletare. Una solidarietà non sbandierata, un legame forte, identitario, tra loro. Che si scioglie mentre attraversano un campo dove sono quasi pronti i carciofi, davanti al fuoco della baracca quando la briscola non basta più e viene un po’ di nostalgia per le mogli rimaste in paese, seduti al tavolaccio, ad addentare il pane insaporito dal salame e mandar giù la grappa, la “graspa” che fa più bollente il caffè. L’ispezione in una casa diroccata dice dell’abbandono delle terre, il conteggio su un quadernetto dei pesci venduti squarcia affari in declino per l’inquinamento delle acque e il riscaldamento della terra.
Anche nel capitolo numero due ci sono specie sparite, come il luccio, o ridimensionate, come le anguille che due anziani tirano su con la rete e poi vanno a vendere all’oste della Vecchia Lanterna, un faro romantico tra le brume e i casoni sull’acqua, gli stessi che più a nord-est, verso Grado, erano il buen retiro di Pier Paolo Pasolini. Sgarbi spalanca il rito della pesca delle vongole, con le barche che portano intere famiglie a faticare e si avvicinano l’una all’altra, quasi il mare diventi sala da ballo. Una coppia sale sul peschereccio di prima mattina, lei quasi scompare nella muta, poi via, con l’acqua fino ai fianchi, a tirare la rete per estrarre le vongole dalla sabbia. E ancora, a prendere i grappoli di cozze abbarbicati ai pali e a confezionarli artigianalmente in lunghe e pesanti retine. E il pesce siluro? C’è un anziano allevatore che si districa tra le giunchiglie e sa la storia vera, perciò lo scagiona dall’accusa di aver fatto sparire altre razze.
Il poema del Po scorre lento come il fiume. Bastano le immagini a creare la suggestione e forse per questo i testi affidati alla Cescon – li firma, tra gli altri il fratello della regista, Vittorio Sgarbi – sono un di più che appiccica un artificio alla scarna ed emozionante verità raccontata dalla macchina da presa. Eppure gli autori e la cineasta ci mettono il cuore in quelle parole, che impastano ricordi di bambini, usanze, leggende. Lo specchio d’acqua immobile nasconde in realtà il ribollire della vita. Il fiume muto è vita. Eccolo allora vibrare quando i pesci, intrappolati dalla rete, guizzano espressionisticamente a pelo d’acqua. Genius loci da rispettare.