E non solo per questa battaglia. Ad esempio, “in ‘Amarcord’, c’è la sua retorica al fascismo ed al maschilismo”. “Debito e devozione a Federico forse bastano ad ispirare un’opera su di lui”.
Ettore Scola racconta Fellini in “Che strano chiamarsi Federico”, che sarà distribuito in autunno da Bim ed Istituto Luce – anteprima per quattro settimane sulle piattaforme Cubovision di Telecom Italia –, in occasione del ventennale dalla morte del regista de “La Dolce Vita” (era il 31 ottobre 1993).
Fino al 23 giugno a Cinecittà è possibile visitare il set del film allestito al Teatro 5, quello per eccellenza di Fellini, ma anche di Scola, che qui ha girato “La famiglia” ed “Il viaggio di Capitan Fracassa” (“La prima volta che sono entrato a Cinecittà – racconta Scola – è stato nel 1936, mio padre e mia madre mi avevano portato a conoscere gli studi. La prima persona in cui mi sono imbattuto fu Amedeo Nazzari, una persona bellissima, ne subii la fascinazione”).
Ed ora al Teatro 5 i ciak del racconto della sua amicizia con Federico (“Con Federico c’è stata una vicinanza particolare fatta di telefonate all’alba per dieci giorni consecutivi e poi silenzi di settimane. Più volte era a cena a casa mia. A causa di una cappa che quando aspirava produceva una ventata sedeva a tavola con cappotto, sciarpa e cappello. ‘Questa cena mi costerà un raffreddore’ diceva. Ma tornava sempre”).
Sono stati ricostruiti la redazione del Marc’Aurelio (“Nel ’47 ho conosciuto Federico al Marc’Aurelio, storico giornale satirico, lui era lì dal ‘39”), il Bar di Via Veneto dove l’insonne maestro di Rimini approdava la notte con i suoi amici, l’appartamento in cui il giovane Scola leggeva al nonno cieco il Marc’Aurelio, il bagno diurno Cobianchi di Roma per rappresentare il racconto di Fellini “Ma tu mi stai sentire ragazza dei bagni pubblici Cobianchi?”.
E poi c’è la mitica Lincoln, l’auto con cui Fellini andava in giro la notte con i suoi amici. In una di queste scorribande in “Che strano chiamarsi Federico” i due cineasti s’imbattono in un madonnaro (interpretato da Sergio Rubini) con cui dibattono di cultura. Un altro incontro sarà con una prostituta, che ha il volto di Antonella Attili e che ricorda la Cabiria felliniana. Da poco finite le riprese, “Che strano chiamarsi Federico” è ora al montaggio.
“Che cosa verrà fuori da questo film? Non lo so davvero. Ma so che mi piacerà. Questo non è un film e non è un documentario. Non troverete emozioni della sua visionarietà. E’ un film fatto di angoli, di piccoli angoli. E’ un racconto in episodi e non in ordine cronologico”, afferma Scola. “L’ultimo mio film – dice – risale al 2003. Non volevo più girare per motivi psicologici, non riconoscevo più nulla delle logiche che mi avevano guidato nella voglia di fare il cinema che avevo sempre amato. Non avevo più voglia di fare cinema. Ed anche qui non ne ho fatto. Colpevoli del tradimento alle mie parole nel rimettermi comunque dietro una macchina da presa sono, tra gli altri, le mie figlie Paola e Silvia”. Sono loro che firmano a sei mani la sceneggiatura con il padre, e sono i figli di Paola tra i protagonisti del film: Tommaso Lazotti è Fellini da giovane, il fratello Giacomo è Scola da giovane.
Ma chi era Fellini? “Un Pinocchio che non è mai diventato un bambino per bene. Aveva un’anima burattinaia”, dice Scola, aggiungendo: “Anche chi non ha mai visto un film di Federico è condizionato dal suo sentimento poetico”.