La musica è quella della “Gazza ladra” di Rossini, col piglio carismatico e vivace insieme del cigno di Pesaro. E fa da colonna sonora allo spot che la Rai dedica alle Giornate Fai di Primavera che, il 21 e 22 marzo, apriranno per il ventitreesimo anno consecutivo luoghi del Bel Paese solitamente non accessibili al pubblico.
Glauco Mauri è un caposaldo del teatro italiano dagli anni Sessanta. Ha cavalcato la scena con grandi registi (da Enriquez a Ronconi) e affrontato autori cardine da Shakespeare a Ionesco, da Dostoevskij a Beckett, dal quale ha tratto un suo memorabile cavallo di battaglia, quell’”Ultimo nastro di Krapp” riportato recentemente in palcoscenico con Roberto Sturno. Proprio con l’attore romano con quale ha costituito una compagnia da oltre trent’anni, propone ora a Roma, al Teatro Parioli fino al 15 febbraio, un delizioso e insieme denso spettacolo, “Quattro buffe storie”. Sì, quattro diversi atti unici, due di Pirandello e due di Cechov, che ci restituiscono un teatro lieve ma capace di far pensare e di regalare al pubblico testi preziosi.
Se il difetto delle fiction tv in più puntate è quello di diluire troppo la trama, quello di “Con il sole negli occhi” di Pupi Avati, passato ieri su RaiUno in prima e unica serata, è stato quello di condensarla troppo. La vicenda di Carla – avvocato matrimonialista che vive agiatamente, contornata dal successo professionale condiviso con il marito e da un giro di amici tipici della Roma radical-chic, quella per intenderci delle feste in villa a Fregene, con megatorta e coretti di canzoni alla moda (appunto così comincia) – subisce nell’ora e mezza di durata del film tanti e tali colpi di scena da rendere certe situazioni poco credibili. Insomma, Avati paga un po’ il pegno ai ritmi imposti dal piccolo schermo, che deve sempre tener desta l’attenzione del telespettatore, a differenza di quanto avviene in una sala cinematografica, dove buio, silenzio, concentrazione permettono al cineasta di indugiare sui climi interiori, sulle sfumature, sui passaggi psicologici.
C’era anche la presidente della Rai Anna Maria Tarantola al Quarantesimo Premio Nonino, consegnato sabato a quattro artisti e intellettuali di respiro internazionale nella cornice elettrizzante delle Distillerie di Percoto (Udine), che per un giorno l’anno diventano l’ombelico del mondo culturale in questo angolo di Friuli operoso e fantasioso insieme. La signora Tarantola era alla sua prima volta nel regno dei Nonino, che radunano attorno al loro Premio una giuria prestigiosa, presieduta dal Nobel Sir Vidia Naipaul e composta tra gli altri da Ermanno Olmi, Edgar Morin, Morando Morandini, Antonio Damasio, Adonis. E deve aver fatto fatica a contenere il suo consueto, signorile aplomb davanti alla travolgente ospitalità della famiglia friulana, che inframmezza brindisi, manicaretti, balli con temi seri, alti, comunque di intenso spessore sociale. “Davvero una manifestazione di incredibile vitalità, organizzata benissimo”, si è sentito commentare la presidente della Rai mentre riprendeva l’aereo che la riportava a Roma.
Marida Caterini, nella “letterina” per l’anno nuovo su questo magazine, ha appena auspicato una palingenesi dei palinsesti televisivi, tale da apportare davvero un lunario innovativo, da vendere allo spettatore ormai incredulo su qualsiasi positiva rivoluzione digitale, al pari del passante leopardiano di fronte al mercante di almanacchi.
Renzo Arbore, appena intervistato da Massimo Giletti nello speciale di domenica scorsa, ci ha catapultati in una tv degli anni passati nella quale, per aver osato annunciare con lo srotolamento di un rotolo di carta igienica il suo Scarpantibus fu radiato per cinque anni dal piccolo schermo, tanto la boutade orchestrata insieme con Gianni Boncompagni sembrò blasfema ai conformistici piani alti di Viale Mazzini.
Racconta Nino Manfredi che fu il nonno il suo primo maestro di recitazione. Il nonno minatore, emigrato in America, tornato a Castro dei Volsci, dove tutta la famiglia risiedeva prima dell’exploit nel mondo dello spettacolo di quel nipote che nel ’37 aveva preso la tubercolosi, l’aveva curata al Forlanini ed era un giovanotto apparentemente tanto casereccio.
Mica detto che il banchetto messo su con cibi poveri lasci insoddisfatti i commensali. Anzi, può capitare che tutti si alzino da tavola leccandosi i baffi, lodando l’estrosa cuoca e ripetendo il saggio adagio “necessità fa virtù”. E successa pressappoco la stessa cosa all’appena conclusa nona edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, che l’anfitrione Marco Muller ha mandato in porto dribblando le difficoltà economiche dovute ai cordoni della borsa stretti da Campidoglio e Pisana e dagli stessi sponsor privati.
C’era anche il ministro per i Beni Culturali e Ambientali, Dario Franceschini, al Roma Film Fest, per la proiezione in anteprima di “Due volte delta”, il docu-film di Elisabetta Sgarbi in concorso nella sezione Prospettive Italia. C’era non solo perché padano quanto la Sgarbi, che è nata a Ferrara ed è attaccata da cordone ombelicale alle proprie origini. Ma c’era perché il lavoro di Betty Wrong, come la Sgarbi si nomina nel logo di produttrice del film (in collaborazione con Rai Cinema), è un canto libero al patrimonio paesaggistico ed etnoantropologico del Bel Paese.
Divo che fa ancora impazzire le ragazzine sul red carpet del Festival del Cinema di Roma, barbone nei bassifondi di New York nella pellicola presentata in anteprima al Parco della Musica. Richard Gere uno e due ieri, sullo sfondo del radioso tramonto capitolino. Meglio, metamorfosi di un attore tra i più popolari al mondo, che da sex symbol anni Ottanta/Novanta (“American gigolo”, “Pretty woman”, “Ufficiale e gentiluomo”) si trasforma di anno in anno e di pellicola in pellicola in un riflessivo protagonista in cerca del significato dell’esistenza. La sua per prima, segnata dagli studi giovanili in filosofia e dall’adesione al credo buddista.