La redazione del programma ha diffuso ampi stralci dell’intervista. Ve li proponiamo.
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Nadia Toffa: Come definiresti Palmesano?
Roberto Saviano: Lo definirei un giornalista con la schiena dritta che, con l’ossessione del racconto e della cronaca della criminalità organizzata, ha praticamente reso la sua vita un inferno. Ha contribuito però a custodire una verità che altrimenti sarebbe stata smarrita.
Toffa: Tu hai conosciuto Enzo?
Saviano: Con Enzo, in realtà, ho come iniziato ad annusare il territorio intorno a casa mia. Da ragazzino, insieme a un mio amico, andammo a Pignataro Maggiore, il paese di Enzo. Enzo ci mostrò le ville dei boss. Una volta eravamo davanti alla villa di don Vincenzo Lubrano, dicemmo ai pali che presidiavano la villa di don Vincenzo, che eravamo studenti di architettura che volevamo vedere le bellezze delle ville di Pignataro.
Toffa: Quanti anni avevi?
Saviano: Credo che avessi finito da poco il liceo e avevo iniziato l’università.
Toffa: Possiamo dire che tu con Palmesano hai iniziato ad occuparti del tema della camorra?
Saviano: Sì, leggerlo mi aveva dato subito la sensazione che si trattasse di un modo diverso di raccontare quella realtà e anche un modo diverso fisico di stare in quella realtà. Significa andare sulla notizia anche quando non è notizia di cronaca, quindi quando non c’è stato l’omicidio, ma anche il giorno dopo l’omicidio, anche il giorno prima dell’omicidio. Al ristorante Enzo li vedeva e lo scriveva, li vedeva incontrare un assessore e lo scriveva, li vedeva star vicino a certi ambienti e lo scriveva. Questo stargli addosso era un modo per toglierli la cittadinanza e impedirgli di ammorbare quel territorio.
Toffa: Questo dava fastidio alla camorra?
Saviano: Le organizzazioni sanno benissimo che verranno raccontate, se non fossero raccontate avrebbero un problema anche loro. Loro vogliono che si sappia una parte della loro attività, perché vogliono intimidire, perché vogliono mostrarsi potenti, ma vogliono che tutto questo resti locale. Chiunque va oltre, chiunque approfondisce, chiunque torna sempre sul quel tema, questo inizia a fare paura. Una volta Maurizio Prestieri, un importante boss del clan Di Lauro, dice: “Noi vogliamo essere, VIPL”, Vip con la L finale. Cioè importanti, ma local. Cioè, localmente tutti “ci devono conoscere, fuori nessuno ci deve conoscere”.
Toffa: Prova a farci degli esempi su come un giornalista possa ampliare il suo sguarda e quindi poi possa dar fastidio alla camorra.
Saviano: Posso raccontare l’omicidio di Immacolata Capone, una donna che venne uccisa per strada come un boss. Il cronista racconta questo, racconta l’ipotesi della magistratura e chiude. Vado oltre e metto insieme e ipotizzo che quell’omicidio, secondo alcuni elementi che trovi, possa essere legato all’alta velocità. L’alta velocità, cioè Napoli-Roma, l’ha costruita il clan dei Casalesi. Poi vado oltre e vedo le discariche, poi approfondisco e vedo che in quelle discariche ci sono i rifiuti del Nord Italia. Su quelle discariche posso fermarmi, e invece no. Puoi andare avanti e puoi scoprire che quelle discariche poi sono state vendute allo Stato e lo Stato su quelle discariche ha fatto costruire una strada. Quindi puoi andare in superficie, essere tranquillo, evitare le querele, sembrare anche un giornalista che sta raccontando la verità, una verità di tutti. Oppure puoi andare giù, andare in fondo e rischiare.
Toffa: Questo dà fastidio alla camorra perché in qualche maniera si entra nei loro interessi economici?
Saviano: Ovviamente, si entra non solo negli interessi economici, ma anche di un’attenzione nazionale e internazionale che costringe la macchina giudiziaria a essere veloce e a essere sostenuta economicamente. Per fermare chi racconta queste cose, oltre ad esserci un modo fisico, cioè ti eliminano, c’è l’arte meravigliosa e drammatica, dico meravigliosa ironicamente, della calunnia. Nessuno può fermarti oggi dicendo: “Tutto quello che dici è falso”. Era l’accusa che facevano, ad esempio, i mafiosi negli anni ’80, nel maxi processo di Palermo, dicevano che Cosa Nostra non esisteva. Oggi ti dicono “sei esagerato”, oppure dicono “è una cosa che dicono tutti”, che è importante per cercare di abbassare l’attenzione di chi ti ascolta…”va beh, ma quello che stai dicendo, l’hanno già detto altri, ma si sa…”, perché dire “No, non è vero” o “Questa cosa non la puoi dire”, significherebbe essere immediatamente ascritti al meccanismo omertoso.
Toffa: Ma quanto è difficile fare il giornalista in quei territori?
Saviano: Quasi impossibile. Enzo ha mostrato, e la sua vita lo dimostra, quanto sia complicatissimo fare questo mestiere in un territorio dove l’isolamento è immediato. Quando ho letto la sentenza, mi aspettavo, confesso, un cataclisma internazionale. Un caso unico in assoluto dove un’organizzazione criminale, secondo una sentenza della Repubblica Italiana, ha chiesto la rimozione di un giornalista. E invece c’è stato il grande silenzio, come sempre.
Toffa: Ma perché i giornali non ne hanno parlato? Tu sei stato il primo a scriverne, dopo di te qualche articolo è uscito, ma pochi, pochissimi.
Saviano: Innanzitutto c’è una specie di meccanismo di mutuo sostegno, cioè “non parliamo troppo dei giornali, domani quel giornale potrebbe essermi utile, il voto all’Ordine potrebbe servire”. Secondo me quindi non si vuole quasi mai, tranne in casi rari, pestare i piedi a editori, giornali… sono tutti in qualche modo legati, vincolati, ricattabili.
Toffa: Tu ora stai molto all’estero. Ma nel Paese dove sei tu, come avrebbero gestita questa notizia?
Saviano: L’attenzione internazionale spesso si ferma. In Germania, in Francia, in Inghilterra, in Spagna, non riescono fino in fondo a capire. Cioè se davvero questa persona è stata licenziata per ordine di un boss e c’è l’intercettazione, com’è possibile che non c’è stata una battaglia culturale sul caso?
Toffa: Cioè vuoi dirmi che all’estero arrivano addirittura a pensare che il fatto non sia vero perché non si spiegano che non ci sia un clamore mediatico in Italia?
Saviano: Sì, perché è molto complicato, devi leggerti 500 pagine di sentenza, devi leggerti l’inchiesta. Quando una cosa non è affrontata direttamente da una firma che loro considerano autorevole o comunque in grado di spiegargli il fatto, queste cose arrivano molto tardi. Il loro pubblico non riesce a percepire. È impensabile che in Europa esista un Paese, l’Italia, con decine di persone sotto protezione per minacce criminali. È quasi impensabile.
E allora è molto più facile dire: “Va beh, è un’esagerazione italiana”. Loro arrivano a percepire quando c’è un omicidio, quando c’è un grande attentato.
Toffa: Ma nelle intercettazioni, il boss Lubrano paragona Palmesano al giornalista Giancarlo Siani. È un parallelismo molto forte.
Saviano: Il parallelismo è inquietante. Giancarlo Siani viene ucciso negli anno ‘80, giornalista abusivo, quindi senza contratto, del Mattino. È interessante ricordarlo soprattutto per il pubblico più giovane, perché Giancarlo Siani non fa semplicemente il lavoro di cronista. Infatti, l’articolo per cui lui viene ucciso è un articolo dove lui lancia un’ipotesi: l’arresto di Valentino Gionta, boss di Torre Annunziata, potrebbe essere il prezzo pagato dai Nuvoletta per la pace con i Bardellino. Quindi lui sta facendo un’ipotesi e su questa ipotesi, che aveva imbroccato, che era giusta, viene condannato a morte. Siani viene ucciso anche a cuor leggero in qualche modo. Perché ragazzino, perché coscienti che non sarebbe stato un caso nazionale, e non lo fu, non lo fu affatto, sapendo che era facile, e da qui la stampa locale, non solo facile, diffamarlo. Per 10 anni fu detto che Siani era stato ucciso per storie riguardanti donne, storie riguardanti droga, non si capiva… Era andato in una casa chiusa e aveva visto un magistrato… Tutte balle. Il meccanismo di delegittimazione è il meccanismo più forte che c’è per isolare chi scrive, per spezzare la vita, l’immagine e il quotidiano di chi scrive. E io mi sono così impegnato in prima persona sulla vicenda Palmesano perché ero infastidito e perché volevo anche vendicarmi della solitudine a cui l’hanno costretto.
Toffa: Ma l’isolamento non gliel’ha creato solo la camorra, cioè anche le persone normali l’hanno lasciato solo Palmensano.
Saviano: Certo. Mica perché sono mafiosi. No, l’isolamento non te lo fanno i mafiosi. L’isolamento te lo fanno le persone per bene che si sentono in difficoltà, in colpa, sotto giudizio. Qualcuno si è speso raccontando qualcosa che loro non riescono a raccontare. Sono loro che lasciano soli. Chi racconta, chi dà questa fiducia alla parola, deve sapere che questa parola gli toglierà tutto, metterà in crisi ogni singolo aspetto della propria vita.
Toffa: Cosa possiamo fare noi per i giornalisti che, come te e Palmesano, coraggiosamente scrivono di camorra?
Saviano: Innanzitutto difendere queste figure dalla diffamazione e dall’isolamento. Poi quello che si può fare è capire, capire che c’è molta differenza tra chi approfondisce e tra chi sbandiera che tutto è mafia. Bisogna smettere di tifare e bisogna stare vicino alle parole di chi racconta. Prendetevi tempo, approfondite, capite, questa è la cosa migliore che può fare una persona, una donna o un uomo che vogliono stare vicini a chi racconta le mafie.
Toffa: Rimarrai all’estero o pensi di tornare in Italia?
Saviano: All’estero, quando mi accolgono e quando non cercano di cacciarmi perché creo problemi, sto meglio. Però insomma spero di tornare.
Toffa: Ti abbraccia tutta Italia.
Saviano: Grazie, magari fosse così. Ti abbraccio.