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“Prima di affrontare il volo, ho fatto come sempre una picchiata nella libreria dell’aeroporto. Ci vado ogni volta come se fosse un negozio per gourmet. Oggi ne sono uscito con La leggenda del morto contento del mio amico Andrea Vitali e Mi sono perso in un luogo comune di Giuseppe Culicchia”, mi dice con la sua consueta propensione al dialogo che sprizza simpatia.
Mi sembra di capire che con la lettura ha un buon rapporto, Franco Di Mare.
“Diciamo che sono un lettore ubiquo, onnivoro e disordinato”.
In che senso?
“Che i libri per me sono una calamita. Li compro a raffica, me li porto a casa, li affastello e, confesso, non li leggo proprio tutti…”
Bella sincerità.
“Vede, rivendico il diritto a lasciar da parte un volume se non ci appassiona. Lo consiglia anche Daniel Pennac in un saggio sulla lettura. Stila un elenco di comandamenti per il lettore e tra questi ti dà la facoltà di mettere in un angolo il libro se non ti va. A me è successo con la Recherche di Proust. Non sono andato oltre il primo libro, Un amore di Swann. Del secondo, All’ombra delle fanciulle in fiore, non mi sono cibato nemmeno una pagina. Un altro esempio, legato al grande Umberto Eco. Io ho appena comprato Pape Satàn Aleppe, il primo titolo de La nave di Teseo, l’editrice da lui fondata con Elisabetta Sgarbi dopo la fusione Rizzoli-Mondadori. Però sfido chiunque a giurare di aver letto cinque libri di Eco…Oggi è l’autore più citato, ha scritto di tutto, il suo nome è di moda, le sue opere oggetto di consumismo più che di consumo consapevole. Credo che verrà apprezzato e capito di più tra qualche anno, quando il rumore mediatico suscitato dalla sua scomparsa si sarà attenuato”.
E quando torna dal suo viaggio che cosa troverà sul comodino?
“Un titolo di Mauro Corona, altro mio amico. Poi, mi divido tra la scrittura feroce di Roth e quella dolce di Sepulveda e di Jorge Amado. Considero le seicento pagine di Chiamalo sonno, appunto di Roth, e Le ceneri di Angela di McCourt Frank, due capolavori”.
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Per certi libri mi sembra abbia una vera e propria venerazione.
“Una passione, direi. Prenda La versione di Barney. Mordecai Richler, l’autore, ha raccontato l’amore virile come mai nessuno ha saputo fare meglio: con ciglio asciutto. Per me è stato fantastico scoprire che si possa scrivere d’amore senza diventare melensi”.
Mi sembra di capire, dalle opere che ha messo nel suo Olimpo, che lei non sbrodi per la saggistica.
“E’ un genere che ho frequentato a vent’anni, per farmi bello con le ragazze dei collettivi di sinistra. Certi libri pallosissimi….Però salvo due volumi di Eco, Kant e l’ornitorinco e Dire quasi la stessa cosa, una serie di riflessioni sulla traduzione”.
Ma per lei cosa è un romanzo?
“Mi spiego: un romanzo è come un film, un saggio come un documentario. La narrativa ti propone un viaggio straordinario, ogni volta irripetibile”.
Quando è nato questo amore?
“Quando ero bambino. Con le favole, e la modalità della narrazione orale, quella della mamma o dei vecchi. Ricordo ancora la fascinazione della voce di mio nonno quando mi annunciava: adesso ti racconto una storia…”
E da ragazzo?
“Da ragazzo del liceo scientifico – ma a posteriori dico che sarebbe stato meglio frequentassi il classico, che ha una marcia in più – ho avuto la fortuna di avere un prof di lettere che ci affascinava. Nelle sue lezioni spiegava comparativamente letteratura e storia dell’arte. Il mondo di Fattori e in controluce quello di Verga, per esempio, denso di umori contadini, del colore della terra, del rumore dell’aratro. Mi ha insegnato, quel professore, ad amare la letteratura. Con questo spirito affrontai poi i romanzi che tutti i giovani leggono, e che plasmano l’educazione sentimentale: quelli dei grandi russi, Anna Karenina, Memorie dal sottosuolo, Guerra e pace. Magari non ne coglievo tutti i significati, magari rileggendoli oggi mi procurerebbero sensazioni diverse, ma per Franco adolescente erano un subbuglio di sentimenti”.
Tra le personalità che ha intervistato ci sono anche tanti scrittori: Amado, Oz, Mahfouz. Che cosa ricorda di questi incontri?
“Premetto che prima di vederli avevo letto tutte le loro opere. Perciò con Amado, per esempio, mi creai un feeling preventivo, che poi ho consolidato come lettore dei suoi libri. Del Nobel Mahfouz, che ho intervistato al Cairo, mi resta il ricordo del suo carisma e la commozione che qualche tempo dopo mi provocò la notizia del’accoltellamento del quale fu vittima, ad opera dei Fratelli Musulmani. Con Mario Luzi invece feci un viaggio a Sofia, per la riunione degli Scrittori per la Pace. Lui guidava la delegazione italiana. Quando si trattò di stilare il documento, venne nella mia camera d’albergo. Io avevo la macchina per scrivere e battei sui tasti, sotto sua dettatura, la dichiarazione conclusiva”.
Franco Di Mare è anche autore di libri di successo. Da uno, “Non chiedere perché”, è stata tratta la fiction “L’angelo di Sarajevo”, interpretata da Giuseppe Fiorello. Com’è il suo rapporto con il mondo dell’editoria?
“Felice e nato per caso. Anni fa scrissi una pièce, una testimonianza civile sulla guerra. Sul palco parlavo dei conflitti e mi affiancava un attore quando si trattava di recitare qualche brano. Portammo lo spettacolo in giro per le scuole. Ne parlò il Corriere della Sera. Un articolo intitolato: Franco Di Mare dai teatri di guerra ai teatri. L’editor di Rizzoli mi telefonò e mi propose di scrivere un libro. Mi venne più facile cominciare con dei racconti. Nacque così Il cecchino e la bambina. Poi venne Non chiedere perché, entrato nella Selezione Bancarella. La strada era tracciata e ho continuato a scrivere. Mi sono anche cimentato con un romanzo puro, privo di riferimenti autobiografici, Il paradiso dei Diavoli, ambientato a Napoli. Un’operazione che mi ha molto divertito, come quella legata ad un altro mio libro piccolino, Casimiro Rolex”.
Però c’è un po’ del suo mondo anche negli ultimi titoli citati. Lei è nato a Napoli. E lo spirito campano resiste anche nei più recenti lavori.
“Mi sono creato la mia piccola immaginaria Macondo. E’ un luogo della Costiera Amalfitana, si chiama Bauci. Un paesino della collina, una delle cinquanta città invisibili di Calvino. Sono ambientati lì Il caffè dei miracoli e Il teorema del babà. Penso che continuerò”.