Rai Cinema è coproduttore della pellicola, nelle sale il 3 novembre. Ed è un impegno importante che ha affrontato con un’opera coraggiosa, sia per le tematiche affrontate, sia perché è la riduzione cinematografica dell’omonimo lavoro teatrale scritto da Stefano Massini, autore di spicco della nostra drammaturgia, così scarsa di testi nuovi.
La storia di “7 minuti” deriva da una vicenda realmente avvenuta. Nel 2012, in una fabbrica tessile francese. Qui le operaie si trovano a decidere sulla richiesta avanzata dalla multinazionale che ha comprato la loro fabbrica. Non la cassa integrazione, o, peggio, il licenziamento di parte del personale. Non la delocalizzazione, turni più pesanti, tagli ai salari. No. Alle lavoratrici in attesa fuori dell’azienda, al consiglio di fabbrica, alla portavoce della maestranze i nuovi padroni chiedono di rinunciare a sette minuti della pausa pranzo, che fino a quel momento è consistita in quindici, di minuti.
Che cosa sono sette minuti, tirano il fiato quelle donne, che hanno figli disoccupati o che ne hanno troppi da sfamare? Che cosa sono sette minuti per le immigrate, dell’Est come del Sud del mondo, che gli stenti li hanno patiti da sempre? E però Bianca, la più anziana della fabbrica e della RSU, l’unica ammessa a incontrare i vecchi e i nuovi proprietari per incamerare le loro richieste e trasmetterle alle colleghe, torna col viso teso dalla stanza dei bottoni. Perché, comincia a dire a chi già esulta per lo scampato pericolo di perdere il lavoro, quei 7 minuti sono il primo atto di un’escalation di imposizioni che scalfiranno pian piano le tutele conquistate. Anzi, la richiesta è tanto più subdola quanto più appare lieve. Con il “sì” al nuovo orario, avverte, le operaie si dimostreranno pronte a dire sì a troppo di più.
Così, chiuse nello spogliatoio della fabbrica, le undici sindacaliste – impegnate a decidere per tutte le altre 300 operaie – si troveranno a scandagliare anche il proprio privato. Una ha trovato quel lavoro da un anno soltanto, un’altra prima faceva la donna delle pulizie, una terza sta per mettere al mondo un figlio. L’albanese ha la faccia segaligna di chi ha vissuto ogni miseria, l’africana ne ha viste tante al di là del mare. Dinamiche caratteriali, generazionali, etniche unite ad assilli privati ne faranno da sodali nemiche. Il sospetto che la portavoce abbia ottenuto promesse per quella loro spaccatura è di fatto la negazione della vitalità del sindacato, ora che la crisi morde chiunque. Il razzismo fa da catalizzatore della divisione, al punto che una bianca grida a una nera: “Voi accettate qualunque cosa e ci portate via il lavoro”. E però piano piano il dubbio, l’idea che perdere piede oggi prefigura la completa disfatta di domani, muta dentro quella stanza i rapporti di forza. Se all’inizio tutte erano contro Bianca, alla fine i sì e i no ai sette minuti capestro si pareggiano, perché, ragionano le contrarie, la rinuncia minima chiesta a ciascuna diventa, spalmata su tutte, 900 ore mensili lavoro regalate all’azienda. E sarà la più giovane a far pendere l’ago della bilancia.
Il testo teatrale di Massini, che ha lavorato con Placido alla sceneggiatura, terminava con una battuta fondamentale della operaia che dava la maggioranza a una delle fazioni: “Ho deciso”. Senza dire come. Due parole capaci di stratificare i significati del testo. Di suggellare il succo della democrazia. Di sublimare il valore del singolo, la sua capacità di incidere sulla storia generale e individuale dopo aver ragionato. Nel film invece la scelta viene esplicitata e a noi che abbiamo apprezzato la messinscena teatrale diretta da Alessandro Gassman, dispiace. Perché questo è un plot emblematico, nel quale il finale conta relativamente. Un epilogo poi scritto dalla realtà, nell’industria tessile di Yssingeaux, e ripetuto nei titoli di coda. Un altro punto debole, estraneo alla drammaturgia originale, è il personaggio della ex operaia diventata amministrativa in seguito a un incidente sul posto di lavoro che la costringe sulla sedia a rotelle. Qui si è voluto virare verso un registro pietistico che sfilaccia la tensione degli eventi. E nuoce in alcune sequenze anche alla recitazione di Violante Placido, che dà il volto alla handicappata. La mano forzata sull’effetto facile è anche nella figura della nuova padrona, madame Rochette. Poco credibili i sorrisi, la condiscendenza che rivolge alle operaie appena scesa dal macchinone per avviare insieme al vecchio proprietario (Michele Placido) la trattativa. Eccessivo vederla gustare insieme ai dirigenti e alla stessa Bianca mozzarella di bufala e pomodori. Didascalico il suo cambio di umore quando dalla RSU tarda ad arrivare il sì: faccia acida e commenti tranchant contro l’inaffidabilità dei suoi nuovi acquisti, quegli italiani bocciati col ricorso ai soliti luoghi comuni.
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Certo, all’unità di tempo, luogo e azione scelta da Massini per il lavoro teatrale, difficilmente la pellicola poteva aderire. E infatti parecchie e funzionali sono le scene di esterni, con i picchetti fuori fabbrica o l’antefatto nelle quattro mura di casa di ciascuna delle undici operaie, alle prese appena sveglie con i problemi domestici. L’autore cita “La parola ai giurati” di Sidney Lumet come una delle sue fonti strutturali. E ha appunto dietro le spalle la cronaca avvenuta Oltralpe. Dunque il crescendo di emozioni del testo originario che pure il film riesce perlopiù a conservare non aveva bisogno di far leva su superfetazioni corrive.
Nel complesso però il film è da apprezzare. Grazie alle interpreti, scavate nelle facce senza trucco, nei capelli senza messinpiega, nell’eloquio dialettale, nella luce livida della provincia romana in cui si muovono. Ottavia Piccolo, l’unica attrice travasata dalla messinscena alla pellicola, trasuda schiettezza, nelle espressioni sulle rughe e nei gesti, in quel suo camminare spiccio e dolente sulle scarpe ortopediche. I primi piani di cui si giova spesso la regia sono retti altrettanto bene da Ambra Angiolini, la bulla del gruppo, e da una sorprendente Fiorella Mannoia alla prima prova di attrice. Affiancate da Maria Nazionale, Sabine Timoteo, Clémence Poésy, Anne Consigny. Delle altre, ciascuna nella parte, è doveroso elencare i nomi e spiace che non compaiano nella locandina e nei titoli di testa. Sono Luisa Cattaneo, Erika D’Ambrosio e Balkissa Maiga. Un team che vedranno in Francia, che ha già acquistato i diritti del film, e al Festival della supercapitalistica Tokyo.