Per l’occasione, le 8 puntate sono state riassunte in una versione inedita dalla durata di due ore e mezza circa. Al centro, la lotta dei giudici contro il potere della camorra a cavallo tra gli anni ’80 e ’90. In quel periodo i clan erano attraversati da lotte intestine e, nello stesso tempo, purtroppo, cominciavano a delinearsi quelle problematiche divenute di drammatica attualità oggi, più di vent’anni dopo. Vediamo infatti la mafia travalicare i confini campani, intessere relazioni con gli imprenditori del nord, e interrare i rifiuti tossici, triste preludio di quella realtà che giornali e tv raccontano come “terra dei fuochi”.
Ed è questo l’intento di un simile incontro: non solo dare la possibilità agli studenti di incontrare chi lavora nel mondo della fiction, ma di trasformare questo tipo di racconti in «documenti di storia e cronaca». E’ stato lo stesso Giorgio Grignaffini, direttore editoriale di Taodue, ad affermarlo nel dibattito che è seguito alla proiezione. «La finalità -ha poi proseguito- non è certo promozionale, visto che la fiction è già andata in onda. L’idea invece è piuttosto dare ai ragazzi la possibilità di conoscere e affrontare questi temi, visto che i testi scolastici di storia si fermano molto prima». Alla base insomma, c’è la volontà di rendere longevi prodotti come Il clan dei camorristi, in modo che abbiano un seguito rimanendo a lungo nella memoria degli spettatori. In questa direzione va inserita anche la scelta di “novellizzare” la serie, cioè di trarre un libro dalla sua sceneggiatura (pubblicato da Fivestore).
Si è poi discusso sul fascino che figure criminali, come quelle proposte da tali fiction, potrebbero esercitare su un pubblico psicologicamente non pronto a elaborare il concetto di violenza. Alexis Sweet, il regista, ha paragonato questi personaggi a quelli de Il capo dei capi, sottolineando come manchi l’aspetto seducente che i corleonesi avevano invece lì.
A tal proposito il regista Alessandro Angelini, si è addentrato in una spiegazione più tecnica: non solo gli attori hanno lavorato «per sottrazione», cioè evitando di abbellire i camorristi con espedienti che li caricassero in quanto a pathos, ma si è cercato di raggiungere un effetto di realtà anche attraverso un determinato uso della macchina da presa. Proprio per scongiurare il rischio di una patina accattivante, spesso è stata scelta la macchina a mano, in modo da dare l’impressione che tutto stesse accadendo in diretta, senza filtri.
Del resto, ha aggiunto Giuseppe Zeno che, ne Il clan dei camorristi, interpreta il Malese, il male ha il suo fascino ed esiste nella realtà: tutto sta a raccontarlo con senso critico. Inoltre, ha concluso Grignaffini, la percezione del pubblico non è sempre totalmente passiva.
Rimane un problema: a differenza di quanto avveniva nel cinema di Volonté, una tale denuncia non rischia di essere fine a se stessa, senza risvolti politici e sociali? La risposta è del regista Angelini: la differenza è il pubblico, che oggi ha molti mezzi di comunicazione a disposizione. I film impegnati di quegli anni davano informazioni di cui la gente non era a conoscenza; oggi invece, al momento della visione, l’informazione è già arrivata. E’ per questo che l’eco non si sente, ma ciò non significa che la denuncia passi inosservata.