Certo, martedì i giochi saranno fatti, sapremo da 24 ore se la pellicola prodotta da Medusa, il braccio cinematografico di Mediaset, ha trionfato nella notte dorata degli Academy Awards. Ma la scelta del Biscione di proiettare il film, che comunque è ancora in questi giorni nelle sale cinematografiche e che lo sarà in un numero maggiore di copie se centrerà il colpaccio, si rivela assai lungimirante, in una sinergia tra piccolo e grande schermo che moltiplica le occasioni di guadagno, in termini di box office su un media e di rastrellamento pubblicitario sull’altro. La scelta del network di Mediaset si è già dimostrata vincente in passato, con la riproposta in tv, sulle reti gratuite e prima della visione in pay per view e pay tv, delle opere di maggior successo della stagione. Ed era già stata annunciata a fine 2013, allorché i comunicati stampa di Cologno Monzese annunciavano che “La grande bellezza” sarebbe andato in onda entro gennaio.
Evidentemente neanche Mediaset e Medusa si aspettavano davvero l’ingresso del film magistralmente interpretato da Toni Servillo nella rosa dei candidati alla Statuetta. Così è stato e allora il Biscione si è visto costretto a cambiare strategia e a rimandare la prima tv a giochi fatti in quel di Los Angeles. Senza tuttavia penalizzare gli spettatori nel salotto di casa, che hanno dovuto aspettare un mese ma alla fine potranno confrontarsi con le peripezie del dandy Jep Gambardella, con le sue elucubrazioni esistenziali sugli sfondi di una Roma splendida e sciupata.
Un’irresistibile ascesa, quella del film di Sorrentino, che nel fine settimana vede salire vertiginosamente le sue probabilità di dare all’Italia un Oscar che mancava dai tempi di La vita è bella di Roberto Benigni, ovvero dal 1999. La pellicola infatti è uscita lo scorso maggio, in contemporanea con la presentazione al Festival di Cannes. E, a dispetto delle recensioni che hanno diviso la critica nostrana, con preponderanza di quelle negative, ha entusiasmato all’estero. Lungo l’elenco dei premi collezionati (nel Bel Paese i Nastri d’argento) andati non solo alla regia ma alla interpretazione di Servillo, alla fotografia di Luca Bigazzi, agli attori non protagonisti come Carlo Verdone e Sabrina Ferilli. Tra tutti la vittoria ai Golden Globe, il riconoscimento della stampa estera Usa che in genere anticipa il verdetto degli Oscar. Seguito, a gennaio, dall’alloro dei Bafta, i cosiddetti Oscar britannici.
Attorno a “La grande bellezza” è stato un crescendo di interesse. Il titolo è diventato uno slogan, un passepartout per titoli giornalistici, giochi di parole, perfino il filo rosso di uno scialbo Festival di Sanremo, che si è incaponito a cercare la Grande Bellezza nel passato. Lo stesso personaggio di Toni Servillo, il giornalista mondano Jep Gambardella – sbarcato a Roma dalla provincia, occhio disincantato della fauna del mondo della cultura e dello spettacolo, un universo di falsi, di drogati, di ubriachi di musica e feste in terrazza dove si sta tutti insieme per nascondere la solitudine – il personaggio di Toni Servillo dicevamo, quello che indossa i pantaloni bianchi sulla giacca rossa e insegna perfino come vestirsi per un funerale, ha rilanciato un tipo che i rampanti degli anni Ottanta e gli sfigati del nuovo secolo avevano dimenticato: quello del dandy, dello snob. Insomma, il ritorno del disilluso alla Oscar Wilde, che si vede vivere e vede vivere. Che vuole essere non solo un mondano, ma “il re dei mondani”, che intende andare a tutte le feste e soprattutto “avere il potere di farle fallire”, le feste.
Certo, la pellicola di Sorrentino è lontana dalla perfezione, mette troppa carne al fuoco. Ma sa dare emozioni. Emozioni che vengono dai personaggi (Verdone è uno scrittore che non riesce ad azzerare la sua sensibilità nella brodaglia radical-chic romana e dunque alla fine molla e se ne torna in provincia; mentre Sabrina Ferilli disegna una donna sensibile e triste, comunque autentica, l’unica capace di ridestare interessi affettivi in Jep). Emozioni vengono anche dallo scenario: Roma, indagata nei lungotevere grigi, nelle notti a villa Borghese, nei palazzi blasonati e decadenti, nel buio silensiozo di piazza Navona, nei mosaici delle Terme di Caracalla, nelle pietre languenti dell’Appia. Una Roma viva e morta, accarezzata con distacco e romanticismo insieme. Non siamo d’accordo con Carlo Verdone che continua a ripetere di questo film: non è su Roma ma su una condizione esistenziale, sulla solitudine di ciascuno. No, “La grande bellezza” trasuda Roma non solo nelle inquadrature ma nel milieu che mette in scena. E il successo che ha all’estero, e che le frutterà, secondo le ultime previsioni, l’Oscar, è legato al fascino che la Capitale d’Italia continua ad esercitare oltre i patrii confini.
E infatti, come indotto della pellicola sorrentiniana, stanno uscendo libri e libri sulla città, non ultimo l’omaggio di un raffinato napoletano che ne è stato stregato, Raffaele La Capria (“La bellezza di Roma“, Mondadori). Dunque, issiamolo come una bandiera l’Oscar, se verrà. Orgogliosi del nostro cinema, della nostra identità, del nostro pur calpestato passato, della nostra profanata eppur carismatica Capitale. Per ricominciare, anche economicamente, dalla nostra grande bellezza.