In quale modo, a suo parere, la tv ha influenzato usi e costumi degli italiani?
Certamente in maniera determinante. Ma bisogna fare delle distinzioni e separare questo sessantennio in due grandi epoche: la prima è quella del monopolio della Rai, la seconda invece, riguarda l’avvento della tv commerciale e il predominio della pubblicità che ha mutato tutti i punti di riferimento precedenti.
Vuole dire che i primi trent’anni hanno avuto una valenza migliore rispetto all’epoca successiva?
Durante il lungo periodo del monopolio la Rai, senza Auditel, attenta soltanto all’indice di gradimento e priva di ogni concorrenza, ha potuto realizzare una “tv con velleità artistiche”. In quest’ottica si inquadrano i grandi nomi dello spettacolo come Antonello Falqui e i registi degli sceneggiati come Sandro Bolchi. Si costruivano palinsesti che raccontano e educano.
Il pubblico non aveva gli strumenti culturali adatti a recepire un tale messaggio, non trova?
Infatti: l’obiettivo era proprio di realizzare una tv in grado di raggiungere quella platea non “attrezzata” culturalmente che aveva modo attraverso le trasmissioni in onda di intrattenersi in maniera elegante e informarsi su quanto accadeva. L’acquisto di un quotidiano, non era alla portata di molti. In quest’ottica sono da inquadrare i programmi di Ugo Gregoretti come Controfagotto e le prime candid camera come quelle di Nanni Loy che rappresentavano un’Italia a 360 gradi.
Vuol dire che si partiva dalle idee?
Certo. Le idee erano il fondamento sulle quali costruire palinsesti. non esisteva ancora lo spauracchio dell’Auditel. L’importanza dei contenuti era determinante anche negli USA. Basti pensare agli show di Perry Como.
Arriviamo agli inizi degli anni ’80. Nasce la tv commerciale. Che accade?
Le trasmissioni vengono pagate dalla pubblicità. L’imperativo categorico diventa: farle arrivare al maggior numero di spettatori. E poichè i gusti della maggioranza del pubblico non erano molto esigenti si è avuto una inversione di tendenza verso una tv meno artistica e culturalmente meno valida. Soprattutto nel settore dell’intrattenimento il dominio degli spot è stato determinante per lo scadimento della qualità.
Finisce così la tv d’autore?
Si conclude l’epoca della tv elegante, colta, raffinata che guardava anche oltre confine proponendo ad esempio, canzoni americane giudicate, poi, troppo impegnate. Si conclude l’epoca della “tv da conservare”, ovvero di programmi fruibili sempre e non soggetti a scadimento perchè slegati all’attualità. In quest’ottica vanno inquadrati tutti i programmi da me realizzati sul piccolo schermo, compreso Doc, trasmissione in 400 puntate che, venti anni fa, ha raccontato su Rai2 tutta la storia della musica “colta” in particolare del jazz. La “tv da conservare” è fortunatamente archiviata nelle Teche Rai.
In quale maniera è mutata, invece, l’informazione nel corso di 60 anni?
In questo settore si è verificata una vera e propria rivoluzione. Nella tv in bianco e nero l’informazione era strettamente legata al Governo, i notiziari mandavano in onda le solite “veline” e le opinioni dei politici in un’atmosfera asettica e precostituita. Non esisteva il dialogo o meglio la dialettica: tutto appariva ingessato e spesso anche noioso. Il primo vero scossone è stato dato da Andrea Barbato nel 1976: il giornalista, nominato direttore del Tg2, impresse un taglio differente, più aperto al confronto, in tutte le fasi del notiziario, compresi gli approfondimenti realizzati sotto la stessa testata.
Come è stata modificata l’informazione dalla tv commerciale?
Con il proliferare dei canali è aumentato il numero dei Tg e sono nati i cosiddetti “telegiornali d’opinione” legati ad una determinata tendenza politica. Il passo successivo è stato dar vita anche a talk show di approfondimento politico in qualche modo vicini a partiti o correnti. Questa pluralità ha reso certamente un servigio all’informazione perchè ne ha messo in evidenza tutti gli aspetti.
Quanto salverebbe nei secondi trent’anni del piccolo schermo?
Tutto ciò che non è volgare e non è trash. Quei programmi che riescono a parlare al pubblico in maniera elegante e duratura e sono slegati dall’immediata attualità. Tutto ciò, insomma, che non appartiene alla cosiddetta “tv hard”.
Che intende per “tv hard”?
Letteralmente significa “tv dura”, quel modo cioè di confezionare palinsesti con il fine di rubare spettatori ai canali concorrenti attraverso qualsiasi espediente. In particolare ricorrendo a violenza, ferocia, voyeurismo, gossip,sport pericolosi, film con messaggi negativi che sembrano apparentemente accattivanti.
C’è un modo per contrastare questa tendenza?
A livello immediato chi ha visto davvero nascere il piccolo schermo come me, ha il compito e la missione di conservare la tv d’autore, metterla insieme e preservarla in modo che non ci sia mai nessun equivoco riguardo la sua provenienza. Insomma la tv d’autore non è “roba del passato” ma patrimonio culturale da custodire gelosamente.