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Dovrebbero essere “incontri ravvicinati con il pubblico” ma Law – il sorriso maschile più bello dell’edizione n.10 dell’evento capitolino – è stato più che avaro con i suoi fan. Quelli che lo hanno potuto vedere hanno dovuto pagare il biglietto per assistere all’intervista che nell’immensa Sala Sinopoli, gremita di pubblico e addetti ai lavori, gli ha fatto Monda. Ma per gli altri assiepati da ore dietro le transenne, niet.
Il fascinoso Jude – inglese, 43 anni, cinque figli, molte liaison e quel nome che i genitori scelsero per lui prendendolo da “Hey Jude” dei Beatles – ha schivato il red carpet, infilandosi nell’Auditorium di Piano da un ingresso laterale e appalesandosi ai suoi appassionati paganti in giacchino di pelle nera, t-shirt grigia e pantaloni in tinta. Vedergli la faccia, dalla sconfinata platea e dai lontani palchi della Sala Sinopoli? Difficile perché nessuno ha installato telecamere a circuito interno che rimandassero il suo sguardo fascinoso, le sue espressioni, sullo schermo della location. Dunque il due volte candidato all’Oscar (per “Il talento di Mr. Ripley” e per “Ritorno a Cold Mountain”) è rimasto una silhouette lontana dagli spettatori, seduta su una poltrona rossa sistemata insieme a quella di Monda sull’enorme palcoscenico.
E nemmeno quanto ha detto è riuscito a ritagliare la sua personalità da vicino. Alle domande dell’intervistatore ha risposto in modo spesso tecnico e comunque sempre “politically correct”. Poche parole, dunque, sul set che lo sta impegnando nella Capitale.
Sul set di The young pope
Law è protagonista di “The young pope”, serie tv diretta da Paolo Sorrentino che andrà in onda il prossimo anno su Sky. Lo contorna un cast internazionale che conta tra l’altro Diane Keaton nel ruolo di una suora. Jude è Pio XIII, un pontefice latinoamericano uscito dalla fantasia di Sorrentino e degli sceneggiatori. Monda cerca di saperne di più e gli chiede che cosa pensa di Sorrentino e il film che si è divertito maggiormente a girare. “Sono fortunato perché mi diverto in tutti i film. E se così non fosse dovrei chiedermi il perché. Sorrentino l’ho sempre ammirato e ancora di più dopo aver visto La grande bellezza. Dicevo a tutti che avrei voluto lavorare con lui e dopo un mese mi è arrivata la proposta di questo ruolo. Da agosto sono a Roma, interpreto un pontefice americano. Non so cos’altro posso aggiungere…”. Monda lo incalza con un “ma è difficile fare il papa?”. E lui, che ha passeggiato nei giardini di Villa Medici indossando la veste e il cappello bianchi, ha risposto come riferito in apertura: “Bello ma faticoso perché per non rovinare l’abito sto tutto il giorno in piedi”.
L’incontro è stato intervallato dalle clip dei film di Law. La prima da “A.I, Intelligenza Artificiale” nella quale interpreta un androide gigolò. Com’è stato lavorare con Spielberg? “Era un film voluto da Kubrick, poi venuto a mancare. Per questo il progetto ci appassionò ancora di più: dovevamo realizzare bene una cosa che era di Kubrick poi passata in mano a un altro gigante, Spielberg, che mi affascinò quand’ero bambino, dopo aver visto Incontri ravvicinati. Io pensavo di essere un piccolo ingranaggio in una grande macchina. Invece mi ha stupito che il regista mi abbia chiesto di collaborare. Insieme abbiamo scelto il look del mio personaggio e mia è l’idea di farlo ballare”. Passano le clip dei due film che gli hanno fruttato la candidatura all’Oscar e la domanda è: c’è qualche scena che pensi di non aver recitato bene, che vorresti rifare? “In genere non guardo i miei film. Certo ora farei qualcosa diversamente, ma sono passati 15 anni…”. E di fronte a film storici o in costume (Wilde, Anna Karerina, Sherlock Holmes) come si prepara Jude Law?
Ancora sul set della serie tv destinata a Sky“
E’ un viaggio interessante. Da giovane lavoravo più d’istinto, pian piano sono arrivato a comprendere che la parte più bella di questo mestiere è imparare un mondo sconosciuto, inserirsi in un periodo storico lontano. A volte però si esagera sul lusso di esplorare il personaggio. Dunque bisogna dosare i due elementi: la propria preparazione va bene, ma bisogna assecondare ciò che vuole il regista. In fin dei conti il film è del regista, noi attori siamo i suoi aiutanti”. Ma si sente a suo agio negli antipatici come Bosie, l’amante di Oscar Wilde, o nei simpatici come Watson, braccio destro di Sherlock Holmes? “A parte il fatto che rivedermi in Bosie mi fa arrossire, perché in una scena canto e io non so farlo, credo che anche nei cattivi bisogna trovare un equilibrio, così come nei buoni deve emergere un pizzico di cattiveria. Prendete il mio Karerin, in Anna Karenina. La pellicola tratta dal libro di Tolstoj vuol dimostrare la potenza dell’amore e alla fine anche il marito algido della moglie perduta si riscatta”. Ma che differenza c’è a lavorare con i cineasti inglesi, con i quali ha girato la maggior parte dei suoi lavori, e con quelli americani? “Quello che conta è il denaro, quanto ne hai, quanto ne puoi spendere. Alcuni film hanno dietro grande budget, studios importanti, romanzi famosi. Ma anche con mezzi limitati si può fare bene, perché sei consapevole che ogni cosa va affrontata con amore. Sai per esempio che una scena va girata in un giorno, e allora devi trovare la concentrazione e l’energia adatta”.
E dopo l’affermazione di totale dedizione al lavoro, il divo di The Grand Budapest Hotel si accomiata con qualche fotogramma dal film che predilige. Davvero una sorpresa, perché si tratta dell’unico film diretto, nel 1955, da quel grande attore che fu Charles Laughton. Si intitola “La morte sul fiume”, un rigoroso bianco e nero con Robert Mitchum e Shelley Winters. “Lo preferisco perché bilancia perfettamente realtà e finzione, cinema e teatralità”. E lo dice un Law che ha trovato la celebrità nel grande schermo ma che si è formato sulle tavole del palcoscenico.