{module Google ads}
La notorietà della pittrice romana Artemisia Gentileschi (1593-1653) risale agli anni ’70 del Novecento, in seguito alla pubblicazione del libro “Artemisia” di Anna Banti, lei sì nota da subito come scrittrice, moglie del celeberrimo critico d’arte Roberto Longhi. La Banti nel libro del 1947 rispolverò il processo che Artemisia – vittima di violenza carnale subìta a circa 17 anni da parte del pittore pasaggista AgostinoTassi, amico del padre – intentò contro costui, avviandosi per una strada che, allora e in parte ancora oggi, era tutt’altro che frequente imboccare. Agli occhi della Banti – e a quelli di tutti i lettori e lettrici successivi – la Gentileschi sembrò una femminista ante-litteram: e la sua fama divenne massima, nonstante il carattere intimistico del romanzo, le cui immagini letterarie spesso sfumano nel ricordo, nel sogno, nella visione.
Artemisia si formò nella bottega del padre, pittore sulla linea classicistica dell’arte fiorentina, ma anche emiliana con prudenti rimandi al caravaggismo: egli si era trasferito a Roma per avere incarichi in Vaticano, e lì era nata Artemisia, che nella sua bottega artistica aveva palesato subito un talento spiccatissimo. Una fanciulla con ventaglio, negli affreshi delle volte del Casino Rospigliosi al Qirinale, ove lavoravano il padre Orazio (con appresso la figlia) e Agostino Tassi, è individuata a buon diritto come Artemisia nel 1612: ma ella nel 1610 aveva realizzato già il quadro “Susanna e i Vecchioni” oggi a Pommerfelden, dipinto eccezionale per limpidezza di disegno (quella del padre) e per potenza di volumi specie dell’erotizzante nudo femminile (carattere tutto artemisiano).
Fu allora che la pittrice venne stuprata dal Tassi: le carte processuali – poiché il padre lo denunciò, non potendo quegli rimediare al mal fatto, da uomo sposato – riportano la testimonianza di Artemisia, terribile nella sua crudezza (la critica ne ravvisa le tracce nella cruenta “Giuditta che decapita Oloferne” del 1620), ma riferiscono anche che il Tassi provò a denunciare in Orazio Gentileschi contegni poco paterni verso la ragazza, forse per discolpare se stesso.
Ma non esiste documentazione su questo, se non il palese rapporto di amore-odio di padre e figlia, che ora si ritrovavano, magari a Parigi o a Londra per incarichi artistici, ora si ignoravano per anni. E resta anche a testimonio la fisicità, la carnalità prepotente dei nudi femminili dipinti da Artemisia, quelli della “Lucrezia” (1625) o soprattutto della “Cleopatra” (anni ’30), che il critico d’arte Vittorio Sgarbi fu il primo a riconoscere come opera della Gentileschi (prima era ritenuta del Cagnacci), che infatti è ora nella collezione Cavallini-Sgarbi e di cui questi scrisse: “Il suo realismo è assoluto… di questa Cleopatra sentiamo gli odori, il sudore, la puzza…. È una donna e basta, corpo prima che anima”. Il processo ad Artemisia rivela in lei un bel coraggio, visto che – secondo i tempi – fu lei, non lui, ad essere sottoposta a tortura.
Vengono in mente le parole di Stendhal, che nell’Ottocento denunciava la mentalità borghese: “Una ragazza di sedici anni viene sedotta da un uomo di trenta, e la disonorata è lei”. Artemisia fu sottoposta allo schiacciamento dei pollici, cosa che reca gravi conseguenze a chi è pittore, e sotto tortura ritirò la denuncia, anche se il Tassi venne condannato sia pur a piccola pena.
Ma a Roma ella non potè restare: il padre la condusse a Firenze facendola sposare a certo Pierantonio Stiattesi, da cui Artemisia ebbe quattro parti, ma una sola figlia vivente. A Firenze fu stimatissima dal nipote di Michelangelo che le diede incarichi di pittura per la casa Buonarroti, poi si traferì a Venezia, sempre seguendo le possibilità lavorative, raggiunse il padre a Londra (dipinse per Carlo I d’Inghilterra il suo “Autoritratto come Allegoria della Pittura”), infine, separata dal marito, sposò con le sue proprie forze le due figlie (una naturale) e dipinse anche soggetti sacri a Napoli, morendovi nel 1653. La sua effigie ricorre nelle sue opere sempre in chiave realistica, mai con la ricerca della bellezza: è lei, sempe prosperosa, nella “Allegoria della Musica”, nella S.Cecilia drappeggiata in giallo, nella stessa “Cleopatra”.
L’ultima ingiustizia è quella nella pittura: le sue opere sono state spesso confuse con quelle del padre Orazio, come la “Danae” del 1621 attiribuita a lui, nonostante il largo panneggio giallo paglierino, così tipico di Artemisia. Ma un’altra ingiustizia può davvero essere l’interpretazione teatrale nel 2014 di Carla Fracci settantottenne (!!) col ballerino Toni Candeloro, a Orio di Puglia: povera Artemisia che amava la fisicità prorompente! La verità per lei non è ancora arrivata: forse potrà giungere con una seria fiction televisiva, ancora di là dal’essere concepita, nostante i tanti libri e film dedicati a lei.