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Egli in Rai ha fatto tutti gli step: assunto negli anni Sessanta nella sede di Trento dopo collaborazioni al Carlino e a Avvenire, poi trasferito a Roma al Giornale Rai e al Gr2 diretto da Gustavo Selva, poi caporedattore e capostruttura a RadioUno. Insomma, uno che ha parlato tanto, con timbro pastoso, in trasmissioni settimanali come Sette Arti, Arte per arte, L’immagine parlata, negli speciali della radio, in rubriche che davano conto prima del week end, nello spazio-capestro di un minuto e dieci secondi, delle mostre appena inaugurate. Uno sperimentatore, anche. Negli anni Sessanta, quando ancora la radio prevaleva nel carisma su una televisione ancora troppo giovane, affrontò i primi “documentari radiofonici”, reportage di venti minuti nei quali, come quello dedicato ai villaggi Sos, cuciva le interviste, i rumori di fondo –una fontana, una campana, il verso di un animale– e i suoi testi di raccordo.
Ha molto visto e scritto, questo giornalista radiofonico di lungo corso che da tempo vive a Sutri, scelta per le memorie archeologiche e medievali, ma anche per il fascino del paesaggio. E ha anche molto letto.
Che cosa, Lambertini?
“Poesia e narrativa, soprattutto. Ovviamente insieme con un’infinità di libri d’arte”.
E adesso che cosa ha sottomano?
“Sul mio tavolo ci sono le Fiabe italiane di Calvino, Il Giornalino di Gian Burrasca di Vamba, I Fiori del Male di Baudelaire, i Turbamenti del giovane Torless di Musil”.
Letture disparate.
“Sì, volumi ritrovati in casa e che ho amato, altre comprati in edizioni d’antan”.
Ma il suo libro preferito?
“Non uno, ma quattro. Un’antologia personalissima partita dall’infanzia: Gli ultimi filibustieri di Salgari, L’isola misteriosa di Verne, Il piccolo principe di Saint Exupery, Candide di Voltaire”.
Perché li predilige?
“Perché, specie i primi due, contengono il senso dell’effimero, di qualcosa che finisce, anche la perversità. Insomma, il tramonto, il superamento: una sensazione che mi affascina anche per le mie vicende familiari. Il piccolo principe poi è quel capolavoro che mischia fantasia e realtà, l’avventura veramente vissuta dall’aviatore Saint Exupery e il suo volo fantastico, alla ricerca dei perché. Il Candide, infine: un affondo nella storia dell’umanità intessuta di ferocia, furbizia, avidità. Con quell’insegnamento finale segnato da un utilitarismo all’ennesima potenza: meglio coltivare il proprio orticello…”.
E tra i poeti chi sceglie?
“Montale, Ungaretti…Difficile indicare preferenze. Ho letto tanto, facilitato anche dal mio lavoro. E ho spaziato nel cinema, nel teatro, nella letteratura. E dunque non posso dimenticare Philip Roth, o Alain Robbe-Grillet, il teorico del nouveau roman e nel cinema della “scuola dello sguardo”. Una scelta stilistica minimalista, che ho cercato di seguire anche nei miei libri, con l’uso di un dialogo scarno, spezzato, allusivo”.
Chi ha incontrato tra i grandi della letteratura?
“Ungaretti, Repaci, Diego Valeri. Dell’autore di Sentimento del tempo al quale feci un’intervista conservo una dedica su una raccolta di poesie: A Luigi Lambertini che con molta delicatezza ha cercato di sondarmi l’animo. Quella stessa intervista fu inclusa insieme a molte altre in un disco prodotto dalla Rai. E qui c’è un aneddoto. A Ungaretti, durante il nostro incontro, chiesi di recitare alcuni suoi versi. Lui si impaperò, ebbe uno scatto d’ira che si trasformò in un ruggito, tipico della sua voce cavernosa, che non finiva più. Nell’incisione questo brontolio-rantolo venne cancellato, in ossequio alla pulizia del suono. Peccato, diceva molto del personaggio”.
C’è una foto scattata a casa sua durante una “rimpatriata” con un bel gruppo di intellettuali. Tra questi Mario Verdone.
“Un mio amico. Lo conobbi negli anni Settanta perché tra le sue molteplici specializzazioni contava anche quella di storico del Futurismo. Anni dopo mi colpì una cosa: sul figlio Carlo, eccezionale attore e regista, aveva un atteggiamento affettuoso e insieme ironico. Pareva si scusasse di essere il papà di un cineasta leggero, lui che fondò la prima cattedra di storia del cinema”.
Lei ha conosciuto Burri, De Chirico, Fontana, ma è stato legato molto a Giorgio Morandi. Ne parla in due suoi libri, in “Cartacarbone”, raccolta di racconti, e in “Un aquilone, perché?”, appena ripubblicato.
“Sì, andavo spesso nella sua casa di via Fondazza, a Bologna. Era affettuoso con me e mia moglie in un momento nel quale tiravamo la cinghia. Maria Pia era insegnante e cercava di avere delle supplenze e la sorella di Morandi, che lavorava al Provveditorato, ci indicava i plessi nei quali qualche maestra andava in maternità. Ovviamente nessuna raccomandazione, che non avremmo mai chiesto…Beh, Morandi ci accoglieva ospitale. Tirava fuori una vecchia carta militare del Genio, si faceva prendere dai ricordi. Lui aveva il diploma di maestro e aveva fatto l’ispettore nelle scuole. Diceva in dialetto bolognese: “mo’ sa, andavo qui vicino a Rioveggio…”. Io ribattevo: “Ma qui ci passa l’A1”. “Però – spiegava –ai miei tempi ci passava la mulattiera e c’era il biancospino”. Sì, il biancospino, con quelle foglie sporche di polvere e quel senso di natura malinconica, del fluire delle cose, come nel suo mondo artistico, popolato da bottiglie polverose. Non voleva essere chiamato maestro, ma professore. E sa perché?”.
Perché?
“Perché quando Bottai gli fece avere la cattedra di incisione all’Accademia di Bologna egli ebbe nel prestigioso Istituto una stanzina, mentre Virgilio Guidi, pittore importante ma mai quanto lui, era sistemato in una grande sala e voleva essere chiamato maestro. Allora Morandi, un giorno che una ragazza si presentò a lui apostrofandolo maestro, per ripicca la corresse: “Io sono il professor Morandi, Maestro è quello di là…”.
Lambertini, dove tiene i suoi libri?
“Guardi, avevo quindicimila pubblicazioni di arte contemporanea. Ho regalato tutto il fondo alla Biblioteca Civica di Rovereto. Ho tenuto per me soltanto i libri di narrativa, poesia e teatro. Li ho sistemati nel mio studio, accanto alla camera da letto e nel salotto.”
Parliamo invece di Lambertini scrittore. Come ha cominciato?
“Intanto a dodici anni fondai un giornalino, Il Tredicino, copia unica e numero unico. Negli anni del liceo invece a scuola andavo malissimo. Soffrivo della mia situazione familiare: mia madre andò via di casa, mio padre si sposò di nuovo, ma c’erano incomprensioni tra me e la matrigna. Schiacciato in questa realtà, scrivere per me era una rivalsa. Tra le prime cose pubblicate, ma era già il Sessantotto, un racconto di famiglia, Nonn’Elia pubblicato con due incisioni di Orfeo Tamburi. Era appena cominciata la mia fantastica avventura in Rai”.