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Una giornalista a contatto da tanto tempo con storie eccezionali, che filtra attraverso la rigorosa lettura degli atti processuali, dev’essere anche contigua al pozzo senza fondo della letteratura. Allora, signora Leosini, quali libri legge?
“Sono onnivora, ma non di gialli, a meno che non siano di scrittura catturante. Dunque sì Sciascia, sì Eco, ma non i thriller confezionati alla svelta, che vanno tanto di moda. Insomma, non mi interessa tanto la trama. Mi interessa lo stile”.
Per esempio?
“Quello di Carrere. L’avversario è uno dei libri più belli che ho letto recentemente”.
E ora che cosa ha sottomano?
“La pazza di casa, di Rosa Montero. Sa, la pazza in questo caso è la fantasia. E per me che per mestiere costruisco storie è un argomento fondamentale. La scrittura viene concepita da una mente che non smette mai di lavorare, anche di notte, che è poi il momento da me privilegiato per la lettura. Io ho sempre a portata di mano un post-it, un blocco notes, anche sul comodino. Perché se concepisci una frase con la formulazione giusta, la devi fermare subito sul foglio di carta. Sennò non ti viene più perfetta, rotonda, esatta come l’hai generata”.
E cos’altro legge?
“Il passato e il presente. Lolita di Nabokov, per esempio, è legato alle mie Storie Maledette. A tredici anni leggevo Pirandello, eppure non ero un’intellettuale ante litteram. Piuttosto ero una sventata, una ragazzina in linea con l’esuberanza dell’adolescenza. Però quella predilezione era un segno di quello che sarei diventata. Prediamo Uno, nessuno e centomila. Disegna una personalità contraddittoria, che, magari sollecitata dagli altri, rivela angolature impensabili”.
Ma qual è il libro della sua vita?
“Non esiste e sarebbe una sciocchezza indicarlo. C’è invece il libro del momento, quello che ti intriga in una particolare situazione della tua esistenza”.
Allora quale autore le piace?
“Amo molto Walter Siti”.
Lo conosce?
“Sì. Ecco come. Anni fa, nel suo romanzo Troppi paradisi affermava di vedere spesso le mie Storie maledette. Qualcuno me lo riferì ed io, molto lusingata, oltre a comprare il libro, cercai il suo numero telefonico sull’elenco e lo chiamai. Da allora siamo diventati amici”.
Nel 2013 ha vinto il Premio Strega con “Resistere non serve a niente”.
“Lui dice di aver ottenuto quell’alloro anche grazie a me”.
Si spieghi.
“Me ne inviò una copia in redazione con una bella dedica. La lasciai in ufficio e il giorno dopo non c’era più. Allora gli telefonai dispiaciutissima: “Mi hanno rubato il tuo romanzo con le parole che hai indirizzato a me…”. Lui stava per salire su un aereo e commentò: “Mi dai una bella notizia. Se rubano un libro vuol dire che la scrittura è una cosa preziosa. Tranquilla, te lo rimando. Ma intanto con questa faccenda mi porterai fortuna”. La sera che fu proclamato vincitore dello Strega gli telefonai subito. E lui: hai visto che mi hai messo in contatto con la buona sorte?”.
Lei è legata anche a Raffaele La Capria.
“Eccome. Dudù fa parte della vita della mia famiglia, mia suocera era amica della madre, io lo conosco da quando ero ragazzina. E ogni volta che leggo un suo articolo, sul Corriere o su Il Mattino, penso che gli anni lo hanno migliorato. Certo, il suo Ferito a morte è una grande opera e gli ha dato il successo. Ma le tante primavere che si porta sulle spalle hanno acuito la sua lucidità. Anzi, direi che il suo è un cervello “ragazzo”. E allora, adesso che si parla tanto di rottamazione, facciamola, però con i cretini”.
Signora Leosini, dov’è la sua libreria?
“Ce n’è una in ogni mia casa, perché vivo tra Roma e Napoli, la mia città. Ovunque ho sistemato scaffali in quanto il libro mi piace fisicamente. Azzardo a dire che io vivo dentro la libreria”.
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Ma vorrebbe una copertina che rechi il suo nome come autrice?
“Guardi, io do grande importanza alla scrittura. Dalla carta stampata sono passata alla televisione, Storie maledette sono un grande lavoro autoriale, oltre che di documentazione. Da dieci anni mi corteggiano tutte le case editrici, chiedendomi di pubblicare con loro. Mondadori, Einaudi…Un editor di Rizzoli è voluto venire in treno con me a Milano, dove ho partecipato alla presentazione dei palinsesti Rai, solo per convincermi, durante il viaggio, a firmare un volume con il suo marchio. Io rispondo a tutti: mi lusingate ma come vi permettete di chiedermi un libro, un altro tomo che vada a rimpinguare le pile esposte dietro le vetrine? Il tono della mia ramanzina è scherzoso, però penso davvero che si scrive troppo e troppa roba inutile. La scrittura, come la intendo io, richiede concentrazione, solitudine. Io ora sono troppo impegnata con Storie maledette per dare a un libro il rovello che si merita. Anche se poi, in un certo senso uno ne ho scritto, ed ho pure ottenuto un riconoscimento…”
Racconti.
“Ho partecipato a Goliarda Sapienza, un concorso riservato a carcerati. Ognuno di loro aveva un tutor, scrittori di esperienza, come Susanna Tamaro o Carlotto. A me hanno chiesto di seguire Doina Matei, la ragazza romena che in metro con l’ombrello uccise preterintenzionalmente una donna. Si trattava di aiutarla a narrare la sua vicenda in venti pagine. Ebbene, da lei ho preso solo i dati storici e ho rimontato tutto a modo mio. Ho potuto farlo perché ero in vacanza, a Capri. Ho rinunciato ai bagni e mi solo dedicata all’impresa. E ho avuto la soddisfazione di vedere la mia operazione riconosciuta come la migliore e premiata con la pubblicazione in Racconti dal carcere edito da Mondadori”.
E questa affermazione non l’ha sollecitata a praticare ancora il campo della letteratura?
“Ripeto, è un impegno che non posso permettermi. Del resto ogni testo di Storie maledette deriva da una mia applicazione cesellata alla scrittura. Il librone che mi vedete di fronte quando incontro il protagonista di ciascuna puntata contiene il mio lavoro di autore, che quasi solfeggio, come uno spartito musicale. Insomma, ogni puntata è una biografia dell’animo, che articolo trovando spunti nelle pieghe di un verbale. Il segno della scrittura è personalissimo, non si può delegare a nessuno, né tirar via”.
Che cosa pensa dei magistrati romanzieri?
“ Scrivono bene e hanno la fortuna di trarre molti spunti dalla loro professione. De Cataldo, per esempio, è molto bravo. Però faccio un’osservazione, la stessa espressa quando ho presentato Non sono un assassino, di Francesco Caringella, ora al Consiglio di Stato ma prima giudice ordinario. Per valutare il valore letterario di questi autori, bisogna che non firmino solo noir ma che si cimentino in altri generi letterari. Altrimenti non sono scrittori, ma soltanto magistrati che scrivono”.