Cominciamo con Herzog. Il regista di “Nosferatu” e “Fitzcarraldo” insegue con la sua macchina da presa i vulcani più vividi del mondo e ci cala letteralmente in essi, con immagini tanto suggestive e ravvicinate da diventare iperrealtà. Ma non è soltanto il fascino della danza della lava che crea improbabili ghirigori, ribolle e sussulta chi la riprende, schizza in averno di lapilli a sostenere l’epico documentario. Perché accanto al registro narrativo della Natura, il regista tedesco mette sottotesti che indagano sui miti, sulla percezione della propria vita e del mondo che ha chi convive con i vulcani. Così l’antropologia, la paleontologia, perfino la politica prendono il campo, creando un film nel film. A raccordare il viaggio in lontane zone del pianeta è il vulcanologo di Cambridge Clive Oppenheimer insieme con lo stesso Herzog, che vediamo con i baffi trasformati in ghiaccioli nelle zone antartiche e che sentiamo come voce narrante, lenta e pensosa, sostenuta da una colonna sonora di brani classici cantati da voce – una dea, una sibilla? – femminile. Il punto di partenza è l’arcipelago di Vanuatu, nel Pacifico Meridionale. Qui la guida è un capo tribù, veste una camicia jeans ma i suoi familiari sono gli unici a danzare ancora come gli antenati antropofagi, mimati davanti alla camera di Herzorg da bambini nudi con la testa e i genitali cinti di foglie. Dice, il saggio anziano, che il vulcano riconosce chi abita nella zona e caccia gli sconosciuti. “Mio fratello ci parla, ne sa i segreti, quando deve accendere la sigaretta il vulcano gli si avvicina con una lingua di lava”.
Lo ritroveremo alla fine della pellicola. Pronostica che la fine del mondo, il “giudizio universale” indigeno, arriverà dal vulcano. Ma prima della profezia Herzog ci rilancia le immagini di due suoi set, in Guadalupa, dove stava girando “Cuore di vetro” e dove all’improvviso eruttò il Grande Soufrière, un’occasione tanto ghiotta che lasciò gli attori e andò a fissare sulla pellicola il subbuglio della terra; e in Antartide, mentre realizzava “Encounters at the end of the World” e filmò l’attività dell’Erebus. La successiva tappa è l’Etiopia, la grande depressione sotto il livello del mare, il più caldo deserto del mondo scaturito dal cratere di un vulcano. Qui missioni di antropologi cercano i resti dei primi uomini e Oppenheimer si unisce a loro, vede frammenti di cranio, di tibia, di braccia emergere pietrificati dalla polvere gialla che tutto copre. L’Islanda ha tratto dal mito del vulcano la sua Bibbia, preziosa come i Rotoli del Mar Morto: un poema epico di valore inestimabile, nato nelle verdi lande ora cresciute sulla chilometrica spaccatura del terreno seguita a una eruzione. Celebrano matrimoni tra il mare e il vulcano in Indonesia, altrove erigono chiese a forma di gallo per pregare in faccia al mostro che vomita fuoco. E in Corea del Nord il vulcano è utilizzato dalla propaganda comunista per nobilitare la nascita del dittatore, al pari per i Romani del mito di Enea e di Romolo e Remo. Si raccontano anche morti per voglia di documentare. Come quella di una coppia di fotografi travolti da una gigantesca e bollente nube piroclastica. In un epilogo metaforico della terribile instabilità della condizione umana.
Morte e distruzione, sullo sfondo del Vesuvio, anche nel possente docu di Patierno, presentato alla Festa del cinema nella Selezione Ufficiale come quello di Herzog. “Naples ‘44” ha emozionato Giorgio e Clio Napolitano, presenti alla prima. Pure qui crateri, ma creati dalle bombe. In immagini bianco e nero, nelle quali, su cumuli di macerie, vagano ragazzini scheletrici, ossessionati da fame e sete. Sono state recuperate dagli archivi di guerra di tutto il mondo ma si associano alle scene dei conflitti odierni. “Volevo – ha detto il regista – che venisse annullata la distanza temporale tra passato e presente. Napoli ’44 è uno specchio di quello che accade oggi ad Aleppo e non solo. Tutte le guerre sono uguali, la vita che ci si trova a fare in una città bombardata è la stessa in ogni latitudine ed epoca”.
Il film – che ha avuto lunghi applausi alla Festa di Roma e forse sarà anche in sala. – prende le mosse dalle memorie militari di Norman Lewis (edite da Adephi), il giovane ufficiale inglese aggregato alla V Armata Usa che annotò giorno dopo giorno la sua esperienza nella città italiana più bombardata nella II guerra mondiale. Vide i templi di Paestum diventati rifugio, le massaie immobili in strada pronte a prostituirsi in cambio di scatolette di cibo, famiglie impegnate a desalinizzare l’acqua del mare quando la città fu assetata dai tedeschi che andando via distrussero quanto poteva essere utile alla popolazione, parlò con le donne scalze in cerca di erbe commestibili per le campagne, il lungomare Santa Lucia affollato nei giorni in cui gli alleati distribuivano cibo.
Ancora, respirò l’odore di legno bruciato delle macerie, assistette al miracolo di San Gennaro e ai gatti che diminuivano ogni giorno di più. “Abbiamo cercato immagini negli archivi sterminati degli americani con metri e metri di pellicola ancora mai visti e poi a Londra, in Italia”, dice Patierno che dal padre “sopravvissuto ad un bombardamento solo perché stava dalla parte giusta del marciapiede” è stato avvicinato al libro di Lewis da cui il film è partito. Il regista napoletano immagina che il soldato torni in quei luoghi dove ha visto tanta vita e tanta disperazione e – con la voce narrante di Benedict Cumberbatch e in italiano di Adriano Giannini – li abiti di nuovo. Napoli ’44 è anche un omaggio al cinema che ha saputo raccontare quegli anni terribili, “dentro c’è Rossellini di Paisà, Cavani della Pelle e poi ancora Napoli Milionaria, O sole mio, Le 4 giornate di Napoli, il Miracolo di San Gennaro e uno sconosciuto Re di Poggioreale”. Alle immagini d’archivio, dunque, si affiancano altre di ricostruzione e spezzoni di cinema. Così nell’affresco napoletano di Patierno agiscono ‘segnorine’ e militari, sciuscià e jazz, sopravvivenza, disperazione e voglia di non dimenticare