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Televisione “home made”, come la definisce Arbore: “in senso letterale”, perché è girato in casa dello showman. Proiettata un’anteprima in conferenza, l’appuntamento è un viaggio tra i pionieri del jazz, di cui Avati e Arbore fanno parte: ragazzi che, dalla provincia italiana, sognavano New Orleans e si sentivano dei rivoluzionari della musica. È dal jazz che hanno imparato la lezione dell’improvvisazione, suonando nelle case sventrate dai bombardamenti. Fieri di far parte di un gruppo di pochi, hanno amato suoni nuovi, che nascevano ai cortei funebri per poi imporsi contrapponendosi alla canzone italiana.
“Io sono un jazzista fallito”, ironizza Avati: “Nel mio studio c’è sempre un clarinetto pronto. Ho provato a studiarlo, ma sono negato. Il jazz non mi ha voluto”. “Ve lo dico io -risponde Arbore- perché è un jazzista fallito: innanzitutto perché si è innamorato del cinema, e poi perché è arrivato un tizio di nome Lucio Dalla. Lui, su due piedi, riusciva a suonare divinamente: quando sono andati insieme a Barcellona, alla Sagrada Familia, Avati lo voleva buttare di sotto”.
“Dalla è stato un motivo di grande infelicità”, spiega il regista tra serio e faceto: “Per un attimo ero davvero tentato di dargli una spintarella. Ma ti sembra giusto che io studiavo tanto e lui, in un attimo, raggiungeva quei livelli lì?”.
Arbore approfondisce: “Noi italiani abbiamo contribuito tantissimo al jazz nel mondo: abbiamo battezzato musicisti che girano il mondo, e sono l’orgoglio della musica italiana. Finalmente si sente un po’ di musica in televisione, cui spetta il compito di diffondere l’arte”. “Ma non è vero: il jazz è ancora marginale”, lo contraddice Avati: “Fare un film come Bix oggi, sarebbe impossibile”. Il discorso vira sulla qualità odierna della televisione, dove l’arte è ormai una parola astrusa: se anche all’epoca il jazz non vi trovava particolare spazio, ve ne era comunque alla radio.
Arbore anticipa l’impegno per l’ultimo dell’anno a Potenza, ma soprattutto un programma per Rai Storia dal titolo La Napoli Signora. Andrà poi in replica Quando la radio. “Ho in mente però di fare altre cose, sul rock e sul beat ad esempio: sono due generazioni che vanno ricordate, perché credo che dovere del servizio pubblico sia produrre un antologia di ricordi. Non è nostalgia, è memoria”. In cantiere anche tre puntate dedicate a Mariangela Melato, di cui il regista bolognese ricorda la grandissima tenacia e la sua “verità” sul set: “La troupe, sempre rumorosa, era in silenzio. Il monologo si concluse con un applauso, e nessuno veva mai applaudito”.
È con il pensiero rivolto a Mariangela Melato che la conferenza si conclude. L’appuntamento è è per il 20 dicembre su Rai Storia.