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L’opera mozartiana, non solo attinge alla tradizione teatrale e musicale del singspiel austriaco e tedesco, con parti sia recitate che cantate, ma si lega, come poi “Il flauto magico”, alla particolare religiosità di stampo massone di Mozart e si conclude con la dannazione del ‘cattivo’, l’impenitente e ribelle Don Giovanni.
Questi vive di piaceri, quelli della buona tavola e delle belle donne, seducendo sia le nobili Donna Anna e donna Elvira, che tentando con la servetta Zerlina, accompagnato dal servitore Leporello, costretto a tenergli corda nelle sue avventure: una delle quali si conclude con l’omicidio del Commendatore, il padre di Donna Anna accorso per proteggerla.
Proprio la statua funebre del Commendatore l’empio Don Giovanni avrà il coraggio di sbeffeggiare, all’interno del cimitero, invitandola spudoratamente a cena in casa propria. La sera – mentre la musica si fa raggelante, con strumenti orchestrali come il fagotto, il corno, i timpani – si ode bussare alla porta di Don Giovanni, e al tremante Leporello appare la statua marmorea del Commendatore: “Don Giovanni, a cena teco mi invitasti, e son venuto”. “Non l’avrei giammai creduto – questi risponde – Leporello! Un’altra cena fa che subito si porti”.
Nel terrore, questi avverte: “Padron mio, siam tutti morti!”. Spavaldo, Don Giovanni risponde al Convitato di Pietra senza batter ciglio, rifiutandosi al pentimento: fra impressionanti e sovrumane scale musicali ascendenti e discendenti si sentono le ultime parole di luciferino orgoglio di Don Giovanni, che infine tra fragori immani viene precipitato nell’inferno.
Da quella creatura gioiosa e quasi adolescenziale quale era Mozart, sono uscite creazioni immense, proiettate in una sfera sovrumana, in cui egli ci fa avvertire la presenza del divino.
La personalità di Zeffirelli, nella messa in scena di un’opera come questa, è innanzitutto e sempre fedele al periodo storico e al contesto sociale nobiliare, per cui vi emergono sontuose strutture scenografiche barocche e bellissimi costumi di Maurizio Millenotti. Vediamo colonne, trabeazioni, tendaggi di velluto, manti e piumaggi, un cavallo in scena per Don Giovanni (anche un asino), insomma un montaggio straordinario che ci immerge in quel mondo lontano, ma storico e reale: la direzione d’orchestra di Stefano Montanari, limpida, mozartiana, si lega in toto con l’apparto visivo in un insieme coerente di musica e allestimento scenico.
Il discorso appare diverso per la messa in atto del 2014 nel Teatro Valli di Reggio Emilia della medesima opera di Mozart, con cantanti giovani usciti dal concorso europeo Aslico, con la direzione d’orchestra del venezuelano José-Luis Gomez-Rios, soprattutto con la regìa anch’essa ormai nota da precedenti esperienze nei lirici italiani dell’inglese di Vick.
Il regista ha affermato da subito la volontà di sperimentare con dei giovani altre e nuove modalità di approccio alla lirica: è poco dire che egli ha riportato all’oggi la vicenda di Don Giovanni. Il suo ‘oggi’ sembra raccattare gli aspetti peggiori del mondo odierno, partendo dai jeans come elemento simbolico della gioventù libera da ogni regola, esasperando la sessualità esibita in inequivocabili posizioni, ricorrendo a feticci come le bambole nude inzeppate in una barca fissa in scena, dissacrando figure come quella della suora (nel caos della barca rappresenta Donna Anna). L’energia della direzione d’orchestra era l’unico elemento che potesse musicalmente associarsi all’allestimento ‘moderno’ di Graham Vick.