{module Google ads}
Ma prima dell’attrice italiana tanto amata in Francia, al Parco della Musica è atteso un parterre d’eccezione per popolarità e profilo culturale. Carlo Verdone, Pupi Avati, Walter Veltroni, Piera Detassis, Stefano Rulli (lei presidente della Festa del Cinema, lui del Centro Sperimentale di cinematografia) presenteranno alle 17,30 al Teatro Studio dell’Auditorium il libro di Gian Luigi Rondi, “Tutto il cinema in 100 (e più) lettere”.
Una pubblicazione che ha visto collaborare il CSC e l’editrice Sabinae. E che nasce da un atto di generosità di Rondi, il decano dei critici italiani che ancora, ultranovantenne tiene la sua rubrica di cinema su il quotidiano “Il Tempo” e che ha anche collaborato a lungo con la Rai. Cominciò nel 1950 al Giornale Radio e continuò fino al 1995, mentre in televisione, negli anni Sessanta, diede il via a un denso ciclo dedicato ai grandi registi, dal quale uscirono ritratti vivi e profondi.
Ma come è nato questo libro? Ce lo dice Rondi stesso: “Guardavo e riguardavo, nell’archivio che ho in casa, quei faldoni collocati in ordine alfabetico. Dentro c’erano le lettere ricevute in mezzo secolo da attori, scrittori, registi. Era la corrispondenza con quella che io chiamo la mia famiglia del cinema. Mi sono detto: che ne sarà? Così due anni fa ho deciso di donarla al Centro Sperimentale di Cinematografia”. Sistemato il materiale, Rulli ha dato l’input per la realizzazione del volume, che si giova della cura di Simone Casavecchia (già autore per Sabinae di una biografia di Rondi), Domenico Monetti e Luca Pallanch. E che ha la prefazione di Veltroni. Il libro ha questo di speciale: un’impaginazione vivacissima, nella quale le lettere si possono leggere in fotografia a tutta pagina e sono intervallate da immagini uscite dall’archivio di Rondi, e insieme un compendio non solo degli aneddoti del periodo d’oro del cinema italiano ma dei nodi culturali di quel mondo.
Molte contengono ringraziamenti a Rondi, “il divo per eccellenza”, come lo definisce Rulli . Ma il bello è che il critico – anche instancabile organizzatore culturale dirigendo il Festival di Venezia, quello di Roma e inventando altre importanti manifestazioni, come i David di Donatello e gli Incontri di Sorrento – inserisce nel volume anche letteracce, che manifestano risentimento verso di lui. E poiché le sue risposte sono disperse nei cassetti dei destinatari, egli affianca a ciascuna una spiegazione, che contestualizza lo scambio di opinioni.
Gianluigi Rondi
Che effetto fa a Rondi rivivere certe polemiche, come quella che lo oppose ad Antonioni? “Beh, lì la cosa fu sgradevole, ma riuscii alla fine a sedare l’astio di Michelangelo. Andò così. Nel ’63 Pietro Germi aveva suscitato un aspro dibattito sui film considerati oscuri. Così, su Il Tempo, scrissi un articolo sulla contrapposizione tra queste pellicole e quelle più amate dal grande pubblico. Non citavo Antonioni, ma subito da lui mi arrivò una risposta piccata. Protestava osservando che il suo non era cinema oscuro, ma che era la realtà ad essere diventata problematica e indefinita. E spiegava la sua estetica osservando tra l’altro che una storia è una storia: o è vera o è falsa. E che la noia non c’entra. L’anno dopo uscì Deserto Rosso. Angiolillo, il mio direttore, aveva in antipatia il cinema di Michelangelo e io pur lodando il film, avvertii i lettori che si trattava di un’opera difficile. Quando, mesi dopo, lo incontrai a un ricevimento, mi aggredì con parole offensive. Protestai inviandogli una lettera, poi mi sfogai con Andreotti. Il quale mi suggerì una via d’uscita. Libero dal riferire al grande pubblico, pubblicai sulla sua rivista Concretezza un saggio nel quale rilevavo i meriti culturali di Michelangelo. Il quale mi scrisse grato pur chiamandomi matto.
Rondi con la Lollobrigida a Venezia
E si ricompose l’amicizia”. Insomma, un capolavoro di diplomazia, virtù comune ai “divi” Gianluigi e Giulio. “Andreotti amava il cinema, senza censure. Un grande uomo, e se non lo avessero invischiato in quelle terribili accuse sarebbe diventato Presidente della Repubblica. Quanto a me, ho sempre privilegiato il dialogo, la mediazione. Per esempio con Bertolucci feci così. Lui fu il più grande nemico delle mie mostre negli anni della contestazione a Venezia. Ma quando, nell’83, tornai a dirigere il Festival lo feci presidente della Giuria…”.
Però una cosa fa davvero arrabbiare Rondi: quando gli dicono che è di destra perché scrive su una testata anticomunista come Il Tempo. Un episodio che emerge da una lettera di Zurlini. Spiega Rondi: “Nel ’71 la sinistra mi faceva la guerra e l’Espresso uscì con un articolo su di me intitolato Il doge nero. Nero a me, che ero stato col Movimento dei Partigiani Cattolici Comunisti. Valerio mi disse: perché non glielo ricordi? E io: non prendo la Resistenza come ombrello per ripararmi dalle bombe”.
Ma di lettere, ne riceve più? “L’ultima l’ho avuta da Treves, il regista del film su di me. Purtroppo ora si usano le mail e il cellulare. Del resto anch’io, da tanti anni, ho smesso di tenere il diario”. Chissà quanti tesori in quelle pagine? “C’è il privato con la mia famiglia, ma anche il resoconto di tanti incontri nel cinema. Anche questi saranno presto svelati: Casavecchia ha scovato i diari dal ’47 al ’97 e ne ha fatto in libro in uscita a novembre. Si intitola Le mie vite allo specchio”.
Anna Magnani
Nel libro troviamo anche una cartolina inviata dai fratelli Taviani. Rondi confessa di conservarla come oggetto di culto “a causa di quel loro grandissimo film, La notte di San Lorenzo, che, a chiunque me lo chiede, segnalo sempre come il mio preferito tra i tanti italiani usciti dal dopoguerra a oggi”. Perché “c’è epos, favola, neorealismo. E una tensione emotiva coinvolgente e umanissima, con comprensioni perfino per i tedeschi. Ancora oggi, quando ascolto il requiem di Verdi, mi commuovo pensando alla sequenza del film di Paolo e Vittorio col sottofondo di quella musica”.
Infine, un aneddoto sul Rondi autore televisivo. E’ il biglietto che gli spedisce nel ’65 Anna Magnani per rifiutare, con gentilezza ma fermamente, la richiesta di intervenire a una trasmissione nella quale si sarebbe dovuto parlare anche di Clark Gable. “Nannarella” dà forfait perché Gable non lo ha conosciuto di persona dunque nulla potrebbe aggiungere sul lato umano mentre tutti sanno il grande attore che è. Ma soprattutto – spiega – “l’esperimento in tv l’ho fatto e confesso che mi vedo talmente un mostro e piena di complessi che mi è passata la voglia. E’ più forte di me, creda…”. E pensare che qualche anno dopo, nel ’71, protagonista del ciclo di mini film per la Rai intitolato “Tre donne” ebbe un successo strepitoso.