Inoltre, ci sarà la consueta finestra sull’Egitto con l’archeologo Zahi Hawass, stasera alle prese con la Sfinge e la Piramide di Cheope.
Anche nell’ultima puntata Freedom – Oltre il confine si è dimostrato padrone del suo spazio confermando il bilancio più che positivo di Roberto Giacobbo a Mediaset.
Seguiamo insieme la diretta.
L’apertura è dal Duomo di Milano. Roberto Giaocbbo sale con un carrello del cantiere che lo sta restaurando, fino alla celeberrima Madonnina. Alta poco più di quattro metri, posto lì in cima nel XVIII secolo. Il nome del Duomo di Milano è Basilica Metropolitana di Santa Maria Nascente, progrettata nel 1300, quando doveva essere al chiesa più grande del mondo. Il marmo con cui fu costruita veniva da una cava in Val d’Ossola. Al tempo Galeazzo Visconti faceva apporre la sigla “AUF” sul marmo per renderla esente dalla tassazione.
Il portone composto da venti formelle che raffigurano la vita di Maria.
Ora un drone volerà all’interno del Duomo per restituire immagini inedite e suggestive.
I margini della balaustra esterna ospitano anche quella che sembra una Statua della Libertà in miniatura, che potrebbe aver ispirato quella newyorkese di Frédéric-Auguste Bartholdi. Una molto simile si trova a Firenze ed entrambe sono antecedenti a quella statunitense.
Napoleone considerava Milano la città più degna di rispetto dopo Parigi e fu nel Duomo che si autoincoronò Re d’Italia.
Grazie ad un compromesso con l’Arcivescovo di Milano dell’epoca ottenne la proclamazione di San Napoleone e una sua statua fu posta su una delle guglie dell’edificio. In totale, il Duomo ospita 3400 statue ed è l’edificio con più statue al mondo.
Adesso Freedom si sposta all’Isola d’Elba per raccontare storie di pirati. I corsari erano al servizio del potere e dei padroni, mentre i pirati erano autonomi, liberi e le loro gesta sono arrivate fino all’Elba: Barbarossa si fece conoscere fin lì.
Sbarcò di notte sull’isola per compiere le sue razzie. Gràssera è un villaggio dell‘Isola d’Elba i cui resti sono rimasti intatti dalle notti del Cinquecento che segnarono il passagggio dei Turchi.
Sull’isola, ogni paese ha subito danni dalle invasioni dei pirati. Ma c’è un piccolo castello su un picco montuoso che mai è stato sconfitto da alcun invasore.
È la Fortezza del Volterraio, raggiungibile in circa 40 minuti a piedi dal punto di accesso più vicino.
Mentre la Chiesetta di San Leonardo è un piccolo edificio di culto che si trova sul percorso, posto in un punto panoramicamente mozzafiato. Un castello che ha resistito a innumerevoli attacchi, fino alla fine del Settecento, quando i francesi stavano per impadronirsene. Ma gli abitanti dell’Elba decisero di distruggerlo pur di non consegnarglielo, visto che erano stati loro stessi ad appoggiare i Turchi secoli prima.
tuttaiva, a fronte di quasi quindici minuti del programma dedicati alla salita verso il castello, il suo racconto dura poche decine di secondi. Un po’ poco.
Giacobbo, ora, si sposta in mare, per capire qualcosa in più dell’affondamento, in quel punto, di un aereo bimotore Islander, il 27 giugno del 1980, la stessa sera della tragedia di Ustica. “Fu una casualità?”, si chiede il conduttore.
Per sua stessa ammissione, però, le prove che alimentano questi dubbi sono molto fragili (verrebbe da dire inesistenti, per quanto la coincidenza possa impressionare). In ongi caso, afferma con certezza che le tre persone a bordo non morirono, come fu detto in un primo momento. Cercherà di dimostrarcelo immergendosi nelle acque stupende dell’Elba.
Secondo la relazione d’inchiesta sull’incidente, l’aereo ebbe prima un probelma al motore destro, poi anche a quello sinistro, comunicati dal pilota prima dell‘ammaraggio. Pare che tutto accadde per un’irregolarità nel flusso di carburante, dunque ad un banale errore nel calcolo del carburante necessario al tragitto. L’equipaggio si salvò a nuoto.
Dunque, nessun mistero, nessun collegamento con Ustica, come aveva artatamente evocato Giacobbo.
Freedom si sposta a Houston dove alcuni ricercatori, tra cui un italiano, stano studiando nuove tecniche per combattere il cancro così da colpirlo in maniera più mirata e facilitando l’attivazione del sistema immunitario. Non si tratta di utilizzare nuovi medicinali, ma di somministrarli – attraverso strumenti e tecniche – in modo più localizzato e funzionale alla sconfitta del tumore.
I test clinici sull’uomo non sono ancora iniziati e dovrebbero prendere il via entro tre anni.
Nella Marsica, in Abruzzo, Roberto Giacobbo è andato al Castello di Ortucchio, da dove inizia la ricostruzione della grande opera di bonifica della Piana del Fucino, un tempo il terzo lago più grande d’Italia. Il Lago del Fucino, appunto.
Una piccolissima parte del lago è rimasta, ma è lunga non più di trecento metri e larga meno di cento. Il lago aveva una caratteristica unica: non aveva sbocchi e questo creava i problemi che portarono alla necessità di bonificarlo. Il Castello di Ortucchio si ergeva su quello che era un isolotto in mezzo al lago. La prima idea di prosciugarlo è antica di duemila anni. Giulio Cesare aveva pensato di bonificare la zona già prima di Cristo, ma solo nel 40 d.C., con l’Imperatore Claudio, i romani decisero di iniziare a lavorarci.
Costruirono dei canali che facevano defluire l’acqua e contemporaneamente alcune strutture utili a far fuoriuscire l’aria e i materiali portati fuori per amoliare il canale.
Poi, però, i canali vennero abbandonati e il livello dell’acqua iniziò di nuovo a salire. A metà dell’Ottocento ci fu l’ennesima alluvione che creò problemi, morti e distruzione.
A quel punto, Ferdinando II di Borbone approvò i lavori di bonifica ma non volle investire il suo denaro e chiese il finanziamento di Alessandro Torlonia. Nel 1852 iniziarono i lavori della durata di venticinqeu anni con la predisposizione dei canali necessari a far defluire l’acqua, ancora oggi determinanti per evitare la risalita del livello delle acque.
Freedom ci fa vedere uno dei canali sotterranei principali – lungo sei chilometri – che “svuotò” il lago in tre anni e grazie al quale ancora oggi la piana è asciutta. Si tratta della terza opera idrica al mondo dopo il Canale di Panama e quello di Suez.
L’acqua che ancora oggi defluisce incessantemente, dà vita ad un emissarioche poi confluisce nel fiume Liri.
L’ultima parte della puntata viene dedicata ancora una volta all’Egitto, più precisamente alla Sfinge.
L’immancabile archeologo ed egittologo Zahi Hawass racconta di come alcuni ritengano che ci fosse una seconda sfinge poco distante. Ma non ne esistono prove.
Inoltre, spiega perché il viso della Sfinge appare più piccolo rispetto al corpo: il monolito era deteriorato e non risucivano a modellarlo adeguatamente. Per proseguire nell’opera, aggiunsero massi al corpo.
Infine, passa a parlare dei presunti passaggi segreti – ulteriori rispetto a quelli già scoperti e presenti a pochi passi – e di un tempio direttamente sotto la Sfinge.
Tempo fa il momumento ha subito un crollo piuttoso grave, a seguito del quale fu restaurata con precisione maniacale e riportata agli antichi splendori.
Il tunnel più grande di quelli conosciuti scende in profondità per quindici metri. Ma non si trova direttamente sotto la Sfinge, solo poco più in la. Sono stati effettuati dei carotaggi per verificare, invece, l’esistenza di altri tunnel direttamente sotto il monumento. Hanno dato esito negativo.
Altre cose da capire riguardano la barca del faraone Cheope, trovata qualche decennio fa appena fuori dalla Piramide di Cheope. La più antica barca di legno mai scoperta, lunga 45 metri e costruita con legno di cedro del Libano.
La barca si trovava lì per motivi simbolici, probabilmente era una barca solare e non funeraria: in quanto Dio del Sole, Cheope avrebbe usato la barca per il “viaggio del giorno” con cui ha ripulito il mondo dai demoni. Nella parte opposta della piramide c’è una barca molto simile, usata per il “viaggio della notte”.
Il collegamento con la piramide era garantito da un foro che, altrettanto simbolicamente, doveva favorire l’uscita dell’anima del Faraone per poter salire a bordo delle navi.
La seconda barca solare si trova ancora nella sua fossa, in 1264 pezzi. Al suo restauro sta lavorando da dieci anni un team nippo-egiziano.
La differenza rispetto alla prima barca solare è la presenza di inserti in rame che verosimilmente servivano come supporti per i remi.
Il legno è estremamente danneggiato, praticamente sbriciolato. Viene via via riportato ad un grado di consistenza accettabile grazie ad un lavoro lunghissimo e all’utilizzo di materiali innovativi.
La puntata di Freedom – Oltre il confine finisce qui.