Il progetto non solo è la storia di un ragazzo come tanti altri, ma ha anche una forte valenza di servizio pubblico. Sia per la tematica affrontata che per il merito di far luce su un istituto giuridico, la “messa alla prova”, che ha dato risultati più che positivi in quanto al rientro in società dei ragazzi che ne hanno usufruito.
Ne abbiamo parlato con il regista, Paolo Bianchini.
Come nasce il progetto?
Nasce da un’esperienza precedente dal titolo Il sole dentro. Quello è stato il seme da cui è nato Angelo. Ero stato in un carcere minorile a Treviso: da lì si è sviluppato un rapporto profondo con i ragazzi, alcuni li ho seguiti rimanendo in contatto una volta fuori. Uno di loro stava pensando al suicidio: conosceva solo la strada, e si trovava in un limbo come molti suoi compagni. Mi ha detto che stava già pensando a cosa scrivere ai genitori, ma non l’aveva fatto perché lo avevamo invitato nel campus di Palermo: in quell’occasione ho capito l’importanza di una mano sulla spalla.
E il coinvolgimento della Rai?
Con la Rai avevo già contatti quando girai la miniserie Mal’aria. Dopo quella fiction, l’azienda mi stava chiedendo altri progetti: da qui l’incontro con i dirigenti. L’obiettivo era raccontare storie di ragazzi, un spaccato di realtà poco noto.
Perché la scelta è ricaduta proprio su Angelo?
Perché era il primo in Italia a sperimentare la “massa alla prova” come alternativa alla detenzione. Ci è stato suggerito di andare a Lecce, dove Angelo stava scontando la pena, in quanto esempio per le altre città.
Com’è cambiato Angelo grazie alla “messa alla prova”?
Si tratta di un ragazzo condannato minorenne: ha fatto sette anni di carcere e tre di “messa alla prova”. Chi lo conosceva, parla di un’altra persona: la sera prima della proiezione a Roma, abbiamo ricevuto una lettera che ne faceva le lodi.
Siete rimasti in contatto?
Assolutamente si, e non solo con lui: non li abbiamo più abbandonati. Abbiamo girato lo scorso anno, per tre mesi: per loro era la prima volta che si rapportavano con persone normali, cioè che non fossero poliziotti o magistrati. Si è creato un rapporto profondo: uno di loro prendeva la mia mano e se la metteva sulla testa. Ho capito quanto avesse bisogno, non solo lui, di nutrimento.
Questi ragazzi non sono solo un fascicolo della procura.
In che senso?
Bisogna conoscerne l’anima. Sbandano appena finisce la pena, proprio perché hanno conosciuto solo la strada: è su questo deserto che bisogna costruire.
Ho conosciuto Davide per esempio, che ha iniziato a spacciare a soli nove anni: mi telefona tuti i giorni, quasi fossi un secondo padre. Ora ha vinto una borsa di studio. Oppure Domenico, compagno inquieto di Angelo nella serie: quando mi chiama, mi racconta di essere felice di aver guadagnato 20 euro.
Insomma, Angelo non è solo un film…
Gli abbiamo dedicato due anni di lavoro, ed è molto altro: Angelo è l’anti Gomorra. Oggi la criminalità è diventata un simbolo: non ci rendiamo conto di quanto sia grave la situazione. C’è chi inizia a nove anni, come ti dicevo poco fa: la realtà va oltre quanto possiamo immaginare.
Questo è un primo tassello per costruire una cultura dell’incontro con una realtà troppo poco conosciuta: vogliamo organizzare proiezioni a scuola, creare un ponte tra gli studenti e i loro coetanei non liberi.
C’è la possibilità di vedere il film di Angelo sul piccolo schermo?
So che l’europarlamentare Silvia Costa vuole portarlo Bruxelles, e ce l’hanno chiesto per il Festival di Locarno. Per ora dobbiamo completare il film, che ha bisogno di alcuni miglioramenti. Poi abbiamo pensato ad altre idee, sempre in accordo con la Rai, ma ci manca un interlocutore per la realizzazione.