Cosa vedremo in “Missione possibile”?
Mi auguro qualcosa di diverso dal solito. È il racconto di una serie di viaggi in missioni di pace molto particolari, in giro per il mondo. Sono andato in queste zone non per fare il giornalista e realizzare un documentario. Sono stato lì come volontario, mettendomi a disposizione delle persone del posto attraverso la creazione di laboratori e la realizzazione di varie attività, per tentare di regalare loro qualcosa che normalmente non hanno. Più che un programma tv, definisco “Missione possibile” un docufilm. Descriverò i miei 10 giorni passati in ogni missione e, parallelamente, il pubblico scoprirà le attività dei missionari protagonisti di turno e della missione stessa. Le interviste fatte non sono fini a se stesse, ma hanno un forte senso di verità che spero possa trasmettere al pubblico un messaggio di speranza, che è poi l’obiettivo del nostro programma.
Che è esperienza è stata umanamente?
Indimenticabile, pazzesca, fantastica. Ero partito con la convinzione che sarei tornato indietro con delle emozioni fortissime e così è stato. Guardare con i propri occhi quello che normalmente si legge sui giornali o si vede in tv è qualcosa di assurdo, perché ci si rende conto dei drammi che realmente esistono nel mondo. Questo porta a fare obbligatoriamente i conti con se stessi, è come guardarsi allo specchio e dirsi ‘Sono veramente stato fortunato ad essere nato in un’altra parte!’, e ringraziare per questo. Oltre a ciò, sono tornato con la consapevolezza che si può fare qualcosa per aiutare questi popoli: questi missionari non sono supereroi né santi in terra, ma persone normali che hanno deciso di dedicarsi agli altri. Se loro riescono a creare questa “magia” in zone del mondo così difficili, anche noi possiamo fare molto, molto, di più nei paesi dove viviamo. Emozionalmente è stato un massacro, ma che è si è concluso con un grande messaggio di speranza sbocciato anche dentro di me.
Ci racconti le emozioni vissute nel corso dei suoi viaggi: cosa l’ha colpita, nel bene e nel male, di Haiti?
Lì ho capito che non stato è il terremoto di alcuni anni fa ad aver messo in ginocchio il Paese, già da prima in grande difficoltà per scelte folli fatte da uomini che spesso hanno utilizzato Haiti come punto di passaggio per lo spaccio di cocaina nel mondo. Gli interessi dei soliti noti, ricchi, che tentano di sfruttare il mondo, determinano il fatto che altre persone soffrano fino alla morte. La cosa più brutta che ho visto è che questo è l’unico posto al mondo dove l’uomo non ha più dignità, con persone che si svegliano la mattina e aspettano solo di morire. Al contrario, mi ha colpito la meraviglia del villaggio che suor Marcella Catozza ha creato a Port-au-Prince, in una delle baraccopoli più pericolose del mondo, dove non riesce ad entrare nemmeno l’Onu. Questa suora però, proprio al centro di questo posto, su otto metri di spazzatura, ha costruito un villaggio per 140 bambini cui insegna che solo nel bello può esserci la dignità dell’uomo.
Lei si è recato anche in Benin, stato dell’Africa occidentale: che cosa porta con sé di questa esperienza?
È stata la più difficile tra le tre perché lì il dramma è totale. Sono stato in un ospedale gestito da Fra’ Fiorenzo Priuli, che da 44 anni vive lì e che a 77 anni lavora oltre 20 ore al giorno per salvare vite umane. È in un posto sperduto del Benin, al confine con Congo e Burkina Faso. Dovrebbe accogliere 250 persone, invece ce ne sono dentro 450. I pazienti sono ricoverati in ogni dove: sotto i letti, sui terrazzi, sui balconi, in mezzo ai giardini. Altri 200 malati aspettano in giardino il momento di essere ricoverati: molto spesso, però, non riescono ad entrare in ospedale perché muoiono prima. Anche lì il rapporto tra vita e morte è normalità: per me è incredibile pensare come in quel contesto la morte sia la quotidianità. A differenza degli altri posti, dove sono riuscito a fare laboratori ed altre attività organizzate, in Benin sono riuscito a portare solo dei sorrisi ai malati dedicandomi totalmente a loro, stimolato anche da Fra’ Fiorenzo: secondo lui, il sorriso è la medicina migliore per questi poveri malati.
Oltre all’America Centrale e all’Africa, lei è stato anche in Asia, nello specifico in Giordania.
Sì. Quello in Giordania è stato un viaggio un po’ diverso, in virtù anche della sua posizione geografica. È vicina alla Terrasanta e i riferimenti a Dio sono molto forti. Lì, tuttavia, i musulmani sono più dei cristiani. Questa missione cui ho fatto visita, però, si basa sull’incontro interreligioso. Due sorelle del Sermig (Servizio Missionario Giovani, ndr) cercano di dare amore, incontro, forza a tanti ragazzi del luogo (dai 6 ai 30 anni), aiutando anche disabili mentali e riuscendo a garantire loro una vita normale. Questo non è così scontato da quelle parti, poiché il disabile è spesso considerato come un soggetto da tenere lontano dalla vita sociale.
Sono rimasto colpito in negativo dal clima di guerra che si respira: appena arrivati c’è stato un attentato kamikaze ad Amman. Il conflitto religioso si percepisce chiaramente, nonostante la Giordania sia un popolo pacifico. La vicinanza con la Palestina non aiuta: ogni volta che si viaggia in auto è frequente incontrare posti di blocco, con militari armati di mitra.
Com’è nata la possibilità di lavorare con Tv2000?
Già da diversi mesi discutevamo su una possibile collaborazione. Io cercavo una buona opportunità per fare programmi che potessero essere utili, come del resto lo è “Striscia”. Tv2000 era disponibile a sperimentare con me. Per mesi abbiamo trattato su altre idee, fino a che il direttore Paolo Ruffini mi ha telefonato parlandomi della volontà dell’emittente di raccontare le missioni di pace: per farlo avevano pensato a me. All’inizio ho detto no, perché non volevo fare “il giornalista”. Ho risposto dicendo che se avessi dovuto raccontare le attività di una missione, sarebbe stato più opportuno farlo in un’altra veste, cioè quella del volontario. Ruffini si è entusiasmato per quest’idea e così ho chiesto di poter scrivere il programma insieme a mia moglie, Loredana Bonora, non per preferenza familiare ma perchè sapevo che lei, che fa questo di mestiere, mi conosce profondamente e sa che cosa avrei potuto realizzare. È riuscita, così, a creare un format perfetto per me. Spero che tutto questo possa portare il pubblico a comprendere a fondo le realtà che ho conosciuto. Se il programma trasmetterà ai telespettatori anche il 10% delle emozioni che ho vissuto io, allora sarà un successo.
State pensando a qualche altro progetto con la rete della Cei?
“Missione possibile” è stato riconfermato. Racconteremo un’altra missione con altre due puntate nel periodo natalizio. In questo momento ne stiamo cercando una nel nostro Paese. Per la prossima estate proseguiremo con un nuovo ciclo di altre missioni. L’idea è quella di entrare in una routine: se riuscissi a fare una missione al mese, potrei rendere il format continuativo.
Nel corso di questi ultimi anni lei si è avvicinato alla religione fino a convertirsi. Quanto ciò ha influito nel suo modo di lavorare e nell’approcciarsi a questioni delicate e di grande rilevanza sociale che abitualmente tratta nella sua professione?
Voglio sottolineare una cosa: in realtà non ho fatto niente per avvicinarmi alla religione. Ero un ateo come tanti, cui non interessava cercare Dio. Poi, un giorno poi mi sono ritrovato in ginocchio! Questo mi dà speranza, perchè se ciò è successo a me può capitare davvero a chiunque. Dopo aver incontrato Dio, ho cercato di capire quali fossero i miei problemi e perchè non fossi felice. A quel punto mi sono reso conto di essere stato fino ad allora una persona egocentrica, che puntava solo a se stessa facendo scelte mirate principalmente alla propria soddisfazione personale. Trovare la fede mi ha portato a capire che oggi non mi interessa più scegliere solo per me e per la mia convenienza, ma per quella di tutti. Nel mio lavoro ora cerco di fare delle cose che possono essere di interesse collettivo. La mia vita in realtà non è cambiata, sono sempre lo stesso: ho solo trasformato il modo di condurla e di vivere la mia quotidianità. Oggi posso dire di essere felice: prima cercavo appagamento nella bella macchina da comprare, nei vestiti, nel voler far sempre di più televisione. Adesso tutto questo non mi interessa più: ora preferisco aspettare e vedere se arriva qualche proposta professionale che può essere utile anche per gli altri. Questo motiva anche la scelta di aver accettato di lavorare in una realtà non così popolare come Mediaset, ma ho ritenuto Tv2000 la televisione giusta per fare nuove cose. Sto notando come anche quest’emittente sta cambiando, avvalendosi di persone meno legate alla Chiesa: una scelta giusta, perché in questo modo il messaggio religioso arriva più semplicemente anche a chi non capisce di Chiesa, proprio come me fino a qualche tempo fa.
Molti la conoscono per essere uno degli inviati storici di “Striscia la Notizia”. Quest’anno il tg satirico di Antonio Ricci festeggia 30 anni di messa in onda: qual è il segreto per durare così a lungo?
Siamo tutti dei “vecchietti svegli”: credo che il lavoro sul campo premi il nostro programma. La gente è affezionata a noi come noi a loro e questo penso sia il motivo del successo. Amo moltissimo “Striscia la Notizia”, che è il mio lavoro principale e che faccio sempre molto volentieri. Fino a che loro non mi cacciano io ci starò!