Nell’”Incontro ravvicinato” con il pubblico condotto da Antonio Monda, che con questo “fuoco d’artificio” ha voluto concludere la kermesse, cresciuta quest’anno in termini di biglietti venduti e di presenze e pronta, a cavallo tra ottobre e novembre 2017, ad avere a disposizione anche la Sala Santa Cecilia.
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Benigni ha avuto il prevedibile bagno di folla e se l’è meritato tutto. Sul red carpet è arrivato sobriamente a piedi, senza usare dunque la vettura rossa della Festa. Per oltre mezz’ora ha firmato autografi, scattato selfie, piroettato e saltato davanti ai paparazzi. Poi la poltroncina rossa in Sala Sinopoli, a ripercorrere la sua vita d’uomo e d’artista. Un film lo vide la prima volta a sei anni, con le tre sorelle. “Non avevamo i soldi per il biglietto, dunque sbirciavamo dalla fessura di un tendone Ben Hur, che si proiettava all’aperto. Ma la nostra posizione ci portava a vederlo all’incontrario, sicché dissi a tutti che avevo visto un bellissimo Hur Ben. Più tardi vidi pagando regolare biglietto Lo specchio della vita, con Lana Turner. Commovente. Allora al cinema era impossibile non piangere. Del resto solo il grande schermo ha un potere che nessun dittatore possiede: fa ridere e fa piangere. Insomma, per me fu una folgorazione. Perché vengo da una famiglia di contadini toscani più che poveri: arcaici, mitici. Le serate si passavano raccontando storie davanti al fuoco. Io vedevo ombre stagliarsi sulla parete, come nel mito della caverna di Platone. Si stava come Ercole nelle stalle. Facce autentiche, schiette. Mia madre incinta mi sembrò, quando la vidi, la Madonna di Piero della Francesca a Monterchi. Mio zio Peppino assomigliava al Cristo del Masaccio”.
Scorrono le prime clip. Ecco “La voce della luna”, l’ultimo film di Fellini. “Il mio personaggio rappresentava la libertà, Paolo Villaggio i lacci del sospetto. Federico mi diede il ruolo dopo 13 anni di provini. Mi chiamava e poi diceva che gli serviva un vecchio, un’altra volta voleva una donna. Me li faceva, i provini, perché lo divertivo. Amava i clown più delle donne, e infatti mi diede il soprannome di Kim, la Kim Novak. Ma per me è il più grande regista di sempre, ogni pellicola un capolavoro, prodigioso e dispendioso. Il più italiano dei cineasti, parlava di sé e di tutti noi, di quello che è dentro di noi anche se non lo sappiamo. Antonioni invece era l’opposto, nei suoi set cercava ossessivamente la bellezza. Con lui dovevo fare San Francesco, ma il progetto non riuscì a decollare”.
E Troisi? “Un comico, ma con un sottofondo di senso tragico della vita. Aveva quel cuore che sbalzava i toc toc…Lo accomuno a Totò, che non ho mai incontrato ma che, alla vista dei primi film, mi fece paura. Aveva un’aria di bambino centenario, di teschio, si muoveva come uno scheletro. Nel quale vedevo tutti i morti di Napoli. Con Troisi però ho lavorato nella purezza dell’allegria realizzando Non ci resta che piangere. Un film nel quale abbiamo tanto improvvisato, ma anche lavorato come matti, rifacendo due tre volte la sceneggiatura e scrivendolo fino all’ultimo”.
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Poi l’exploit americano. Diretto da Jim Jarmush, Blake Edwards, Woody Allen. Rievocazioni precedute dalle scuse al pubblico della Festa del Cinema. Per aver dovuto posticipare da mercoledì scorso a ieri l’Incontro ravvicinato. “Sapete – racconta Benigni – sono stato invitato a cena da Obama. Insieme a Cantone, a Sorrentino. Mica potevo dire no grazie, ho già un impegno. La Casa Bianca era rossa bianca e verde, anche i cani parevano dipinti così, mi aspettavo tricolore pure Barack che ci aspettava sul portone, mentre tutti noi italiani stavamo in fila per entrare. S’era intrufolato anche Matteo Renzi…Mister President mi ha abbracciato, ricordando che le sue bambine hanno visto decine di volte Life is beautiful. Persona inobliabile”.
C’era anche Nicoletta Braschi, la partner nella vita e nel lavoro. “Nicoletta per me è stata una vera benedizione. Con lei, attrice anche di teatro, sono passato dalla farsa alla commedia e anche alla tragedia. Mi ha insegnato a dare uno sfondo di realtà al comico. Ed è stata sua l’idea di produrre da soli i nostri film. Una scelta che ci ha dato libertà”.
Un’indipendenza che ha toccato con mano realizzando “La vita è bella”. “Non è un film in due parti, la prima comica la seconda tragica. E’ un film che si chiude con la morte del comico, un epilogo che infrange un tabù. Ho avuto molte pressioni, soprattutto in Italia da parte dei distributori, per tagliare la scena finale. Oltretutto si andava nelle sale a ridosso del Natale. Non ho cambiato niente, e ciò dimostra l’importanza di autoprodurci”.
Infine Benigni e i papi. A partire da quel “Wojtylaccio” pronunciato in televisione nel 1980 che gli costò un processo e una condanna (“un milione di multa e un anno di reclusione con la condizionale”, ha ricordato).
Poi, la clamorosa riconciliazione: “Quando uscì ‘La vita e’ bella’ andai a Los Angeles. Lì mi chiamò il Vaticano dicendo che il Papa voleva vedere il mio film. Tornai a Roma e andai Oltretevere..”. E qui Benigni si è esibito nel suo repertorio migliore: il racconto grottesco tra il fantastico e l’iperbolico. “Pioveva e ad attendermi in una chiesa in cui doveva avvenire la proiezione c’erano tante suore polacche, bellissime – ha detto – poi è arrivato Wojtyla in pantofole. Erano rosse e avanzava come fosse un imperatore. Le suore si sono inchinate davanti a lui e poi alzate come se fosse una ola divina. Alla fine del film Giovanni Paolo II mi disse che lo avevo fatto piangere”.
Ma il rapporto con i papi è proseguito – surreale – anche con Francesco. “Il giorno dopo che ho recitato i Dieci comandamenti sulla Rai ha chiamato a casa mia, ma lo ha fatto alle 8 di mattina. Così gli hanno detto di richiamare il giorno dopo perché dormivo. Capite? Il Papa chiama a casa mia e gli dicono di richiamare perché dormo! Comunque Francesco il giorno dopo ha richiamato. Mi ha scandito: Non sai il bene che fai. E io: no, lo fa lei”.
Scrosci di applausi dalla platea. Dove siedono la “fatina”di Benigni, Nicoletta Braschi, e quello che una volta era il bambino di “La vita è bella”.