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Eccolo allora il sessantacinquenne brizzolato Richard. A Roma incontra i giornalisti sorseggiando una tazza di tè e ironizzando su un pipistrello che gli vola attorno (“Siete interessati più a lui che a me” ha gigioneggiato con i reporter). Poi, camicia bianca senza cravatta e giacca scura, stile elegante casual) ci mette più di mezz’ora ad attraversare il tappeto rosso sotto le cupole di Renzo Piano, perché non si stanca a stringere le mani delle fan che traboccano dalle transenne glissando però saggiamente sui taccuini in attesa di autografo, altrimenti la scaletta del Festival avrebbe rischiato la débacle, con buona pace del direttore artistico della kermesse Marco Muller in attesa di accompagnarlo in sala per la proiezione del film. Ma un po’ di indugio davanti ai fotografi Gere non se lo nega. Invece di mettersi in posa, si avvicina agli obiettivi dei paparazzi, gli piace parlare con loro. Soprattutto, li sprona a fotografare i coproduttori del coraggioso movie portato al Festival di Roma.
Così, quando cala il buio in sala Santa Cecilia e Gere si siede in mezzo a pubblico, il suo progetto artistico e umano si concretizza. Perché in “Time out the mind” affronta la prova più ardua della sua carriera. Si trasforma in “brutto, sporco” ma non cattivo personaggio, piuttosto un disorientato uomo di oggi che si è perso nella New York più sordida in cerca di un ubi consistam.
Da undici anni voleva fare questo film, ha confessato Gere. E se l’è prodotto, da indipendente, consapevole che una pellicola tanto densa di tristezza e di riflessione, tanto ripiegata sui casi del protagonista, tanto priva di colpi di scena e di effetti speciali difficilmente avrebbe attratto i finanziamenti degli studios.
Gere interpreta il ruolo di un senzatetto, diventato tale dopo aver perso la moglie malata di tumore, aver visto svanire il lavoro (un refrain negli States post 11 settembre) ed essersi tanto sfilacciato mentalmente ed emotivamente da abbandonare alla nonna la figlia adolescente. Che non vede da anni, mentre si barcamena tra l’ospitalità di qualche amica sbandata come lui, un cappotto svenduto per comprarsi quattro lattine di birra, il girovagare nella sala d’aspetto di un pronto soccorso quando il freddo della notte punge troppo, l’approdo nel più grande centro d’accoglienza di homeless della Grande Mela, il Bellevue Hospital di Manhattan.
Non succede quasi niente in “Time out the Mind”. L’inerzia o l’impercettibile movimento del plot è funzionale alla vita di un senza dimora. Anche lui vede ogni giorno uguale all’altro, si guarda vivere. Tutt’al più a George Harmond, questo il nome del barbone, può succedere di farsi un nuovo amico, un sedicente jazzista di colore che gli dorme accanto nell’ospizio, che parla parla parla e che all’improvviso smette di respirare, cancellando per il protagonista un’altra casella di affettività nel rebus della vita. E che tuttavia gli lascia una piccola eredità immateriale: l’input a cercare la figlia, a parlarle nel bar dove lei si guadagna da vivere, ad avere il coraggio di riallacciare con il legame parentale il filo dell’esistenza. Con un finale aperto che lascia appena intravvedere un barlume di speranza.
Un film povero, girato in tre settimane e tutto in esterni, basato interamente sull’unico protagonista, che è presente – i capelli radi, i graffi sulla fronte, il berretto di lana, il bicchiere di carta in mano per raccogliere le monete dei passanti – in ogni inquadratura. Gere ha preparato il lavoro girando davvero negli ospizi (“In Usa ci sono 60 mila homeless di cui 20 mila sono bambini”, ha quantificato) e confondendosi realmente tra la gente, nelle strade, sui ponti, nella metro.
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Il regista, Oren Moverman (celebrato autore di “Oltre le regole – The Messenger”, Orso d’Argento a Berlino), lo insegue nascondendo la macchina da presa tra la folla o i vagoni della subway. Ancora, inquadrandolo attraverso il riflesso delle vetrine di una lavanderia, di un bar, di una rosticceria, in immagini sfocate quanto la mente del derelitto George . Rigorosamente live anche la “colonna sonora”, affidata soltanto alla presa diretta dei rumori della strada, del chiacchiericcio dei passanti, delle smozzicate conversazioni al cellulare, delle liti dei nottambuli. Un’umanità smozzicata, in mezzo alla quale Gere durante le riprese si è mischiato senza essere quasi mai riconosciuto. Persone che, come qualsiasi barbone, “hanno necessità di trovarsi un posto nel mondo e si chiedono, ad un certo punto, che cosa significhi casa”.
Applausi contenuti alla fine della proiezione per un’opera schietta, che non solletica il grande pubblico e non sfrutta l’abusata immagine di Gere. Al quale, nella soirée, Jti (Japan Tobacco International Italia, event partner della kermesse) ha dedicato un gala sotto la lanterna di cristallo che Massimiliano Fuksas ha costruito in cima al novecentesco ex palazzo dell’Unione Militare, tra via del Corso e via Tomacelli.
Qui s’è tornato a respirare il clima di Hollywood, con musiche swing e personaggi usciti da Alice nel Paese delle Meraviglie.