{module Banner sotto articoli}
Il libro che è stato appena presentato nella sede di viale Mazzini, alla presenza della Presidente Anna Maria Tarantola e specialisti del settore. Ma più che una presentazione, l’incontro è stato una lezione: e non di tecnica della box di livello, né di esibizione di un vip dello sport mondiale, e nemmeno – come ha affermato Anna Maria Tarantola – un lungo ed importante tassello dell’intera storia della Rai.
E’ stato uno spaccato di unità collettiva, una commozione comune sempre più silenziosa dinanzi alla singolare vicenda umana di Cassius Clay/Muhammad Alì, il pugile che si convertì alla fede mussulmana cambiando nome, che si battè per i neri d’America e non solo per i ‘Mussulmani Neri’, che non volle partire per il Vietnam contravvenendo alla legge del suo paese (che da allora fu cambiata) .
E per Minà che dal 1971 ne seguì il percorso per il Tg2 della Rai, poi anche su Repubblica, fino ad oggi e al parkinson che ha deformato il pugile, fu una lenta scoperta e l’ingresso nel vero giornalismo, parallelo alla scoperta di ciò che non è giornalismo, la ricerca dell’effetto, delle ‘battute’ facili. Per questa conversione, la conoscenza e l’amicizia col pugile di Louisville fu essenziale. La sua capacità di opporsi all’ingiustizia senza compromessi, la sua stessa bontà (in un atleta il cui pugno poteva uccidere) – come la ha chiamata la collega dei momenti difficili, Emanuela Audisio – hanno fatto di Cassius Clay – e sono ancora parole di Gianni Minà – il “Je suis Charlie con mezzo secolo di anticipo”. E continuava, Minà, a far vedere filmati “che facevano capire l’uomo”.
{module Google richiamo interno} L’Uomo, quello dinanzi a cui uno si inchina. E noi ascoltatori si continuava a stare nel silenzio religioso, quello di chi ascoltando la lettura dei “Sepolcri” del Foscolo, aveva la sensazione – diceva il De Sanctis – di ‘stare in una chiesa’. La bontà di Muhammad Alì era anche il costante donare edifici, l’Ospedale, e aiuti economici ai neri: se non andò in Vietnam nel 1967 era perché non voleva combattere gente che aveva sofferto come lui e di cui rispettava il credo religioso.
Gli avevano anche bruciato la casa, lo avevano arrestato: e dopo aver vinto uno dei tanti premi per la sua bravura sportiva, disse: “Eppure questo riconoscimento non mi consente comunque in USA di entrare in un bar come qualsiasi altro”.
Minà ricorda infiniti episodi vissuti con lui: anche quando dopo aver vinto Foreman e fuori c’era la polizia armata, Alì lo aiutò ad entrare con la troupe: ma era rimasto all’esterno un tecnico senza cui Minà non poteva inviare il servizio. Allora Alì tornò e si mise a gridare: “Chiste è frate a me!”…. riuscì nell’intento, e così la Rai ebbe uno scoop eccezionale.
Era questa la vera amicizia del pugile nero. Ma ecco un ricordo dell’ennesimo incontro di Muhammad Alì per il titolo mondiale con Foreman, che affrontò quando ormai stava tirando i remi in barca e la sua forma non era più quella. Per quattro round non tirò pugni, si difendeva soltanto dalla forza bestiale dell’avversario, cercando di prendere i terribili colpi sulle braccia: ormai lo si dava per spacciato, ma lui appena comprese che Foreman era sfinito per aver dato senza troppo pensare già tutto il massimo, sferrò un gancio sinistro e un istante dopo un fortissimo colpo alla mascella, che stese a terra l’avversario.
Ennesimo trionfo della razionalità professionale di Alì. Se si chiede a Minà l’episodio più importante di questa lunga amicizia con il campione, o se ha intenzione di tornare in TV con altri servizi, risponde quasi corrucciato che è una domanda di quelle del non-giornalismo, e che il senso profondo del giornalismo sta in quello che ha già detto. Silenzio compreso di tutti, dopo questa stupenda lezione di etica nella professione.
Il libro di Minà reca anche una prefazione di Mina – che strano gioco di nomi – la cantante appassionata di box e di lui, Alì, che alla fine dichiara: “Continua a essere bellissimo, anche col suo tremare che commuove, e che lo incastona nell’immortalità”.