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La settantaduenne regista ha al suo attivo film non solo di grande qualità, ma di grande impegno ideologico e politico, come “Gli anni di piombo”, che vinse il Leone d‘oro nel 1981. Ella ha affermato che la figura della Arendt (1906-75) ha una fortissima attualità e propone tematiche ancor oggi più che mai vive: ciò la ha spinta a ideare un film su di lei.
Questa ebrea tedesca dopo il 1933, quando il Nazismo mostrò il suo vero volto, fu costretta a lasciare la Germania approdando nel 1940 in USA con madre e marito, divenendo giornalista e attivista della Comunità Ebraica di New York. Quando seppe che i Servizi Segreti israeliani avevano rapito a Buenos Aires Adolf Eichmann – un delle figure al vertice del Nazismo, del quale ideò e pianificò le stragi più efferate – e che a Gerusalemme ne sarebbe seguìto un processo nel 1961-64 , propose al responsabile del quotidiano New Yorker, William Shawn (nel film è Nicholas Woodson) di seguire quel processo, cosa che poi avvenne.
La Arendt era una intellettuale di altissimo profilo, che aveva scritto “Le origini del totalitarismo” nel 1951, sostenendo l’identità di base dei due sistemi, il marxismo e lo stalinismo, che aveva poi scritto il libro che non solo la rese famosa, ma ne evidenziò la spiazzante originalità da vera outsider (mai raggiunta in questo settore), “La banalità del male” del 1962, con la tesi sul male relativo rappresentato dal Nazismo.
La Arendt ebbe rapporti strettissimi, da amante totale con Martin Heidegger, filosofo tedesco docente universitario dalle idee opposte a quelle di lei, che confluì nelle file del Nazismo: non solo, ma tenne anche un contegno morale per noi assurdo, visto che denunciò al partito docenti ed alunni ebrei, quando insegnava a Friburgo. Comunque la Arendt conosceva la realtà del Nazismo molto da vicino: eppure, durante e dopo il processo ad Eichmann, fu sorpresa e stravolta dalla mediocrità e banalità della sua persona. Da questa constatazione nacquero i suoi reportages nel il New Yorker – che suscitarono un vespaio di critiche, anche di ebrei che pensarono a forme di collaborazionismo – ed infine il libro sopra citato, le cui tesi ella non rinnegò mai, né accettò di ridurre la portata della sua tesi della ‘banalità del male’.
La piccolezza dell’uomo Eichmann, la sua nullità di burocrate insensibile – che configgeva con l’immensità del male prodotto – la condusse alla riflessione della non totale, non assoluta essenza del male rappresentato dal Nazismo, che – non avendo radici – non rappresentava il male assoluto nel Mondo. Né gli ebrei – citati con l’odiato termine ‘jude’ – avevano perciò diritto al totale riscatto e risarcimento. Il problema suscita ancora discussioni a fondo nell’ambito torico. Ma la von Trotta non intende arrivare alla risoluzione del dibattito: la interessa di più la donna, il suo tormento e il suo dualismo.
Nel film, l’interprete Barbara Sukova è ritratta come donna volitiva e temeraria, nel suo limpido rapporto col marito Heinrich Blücher (Axel Millberg: molte le scene di intimità con lui), che ne temeva l’impetuoso sostegno ad idee che potevano condurla alla morte, o a confluire nell’odiato Nazismo. Burrascosi i rapporti con l’amico vero Hans Jones (Ulrich Noethen) e con la scrittrice Mary McCarthy, mentre vengono seguite nel film a lungo le scene del processo ad Eichmann.
Quanto al problematico rapporto con Hedegger, il cui alto pensiero finì conquistato all’ideologia totalitaria, colloca su fronti diversi l’uomo nella sua resa al Nazismo per la Arendt ingiustificabile, e la donna con la sua coraggiosa e teoricamente sostenuta indipendenza da esso.
Qui i programmi Rai andati in onda per il Giorno della Mamoria.