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Non si tratta di rarità, perché i pirandelliani “Cecè” e “La patente” , per cominciare, hanno vivificato stagioni teatrali dai primi decenni del Novecento, entrando per esempio il primo nel repertorio di Armando Falconi, divo dei telefoni bianchi, e il secondo in quello di Nino Martoglio. Ma Mauri, che cura la regia oltre a essere mattatore sulla scena, con quella sua maestria nel porgere e nel modulare timbri ora svagati, ora compiacenti, ora disperati, ora sarcastici, ora dolenti – e quella voce inconfondibile è uno strumento duttilissimo – Mauri, dicevamo, scava nel testo tirando fuori i lati più oscuri che giacciono nella apparente crosta della comicità, del vaudeville.
Prendete “Cecè”. E’ un bellimbusto e faccendiere che tira avanti sfornando favori a imprenditori e clientes, in un giro di mazzette vecchio come il mondo. Osa troppo firmando cambiali a una donnina allegra e se ne deve tirare fuori con l’intrigo, con la commedia degli equivoci, che gli riesce alla fine, ai danni di un ingenuo costruttore. Ebbene, questo Cecè senza apparente spessore è un Fregoli che si guarda allo specchio, come avviene all’inizio di “Uno nessuno e centomila”, il romanzo che Pirandello scrisse tredici anni dopo, nota Mauri nelle note di regia. E che dice a se stesso: “Tutti mi chiamano Cecè ma vai a ricordarti come sei per questo, come sei per quell’altro…”.
Ecco che nella pochade si infila il dubbio esistenziale e la coscienza traballa. Essere e apparire, tra ghigni alla sfortuna, come in “La patente”, con al centro un poveraccio che vuole farsi dare da un giudice il titolo ufficiale di iettatore, poiché ormai tutti fanno le corna quando lo vedono passare e allora tanto vale che il menagramo lo faccia di professione.
Cechov, il Cechov dei perdenti, Mauri&Sturno lo affrontano in “Domanda di matrimonio” e “Fa male il tabacco”. Il testo svelto restituito dagli attori disegna caratteri e diatribe eterne, il timido e ipocondriaco, la zitella acida, il possidente menefreghista, il cocciuto attaccamento alla “roba”, l’eterno succube che sopravvive nel ricordo dei bei tempi di gioventù e dei sogni sfumati. E’, quest’ultimo, il protagonista di “Fa male il tabacco”, un monologo che Glauco Mauri affronta sorvegliando bene i pericoli del patetismo ma tenendo in pugno gli spettatori.
Tutto l’ingranaggio dello spettacolo fila liscio, assecondato, oltre che dai protagonisti, dagli altri attori, in primis la duttile Laura Garofoli, che sostiene con verve tre diversissime parti – quella della escort, diremmo oggi, della zitella russa, della tormentata figliola dello iettatore – e il divertente Mauro Mandolini. Il pubblico applaude, anche a un modo di fare teatro senza troppi fronzoli, invece con pochi evocativi elementi di scena, tocchi di regia emozionanti, trovate intelligenti come i siparietti in musica di Germano Mazzocchetti.
Glauco Mauri, che tanta televisione ha fatto (come dimenticarlo nello sceneggiato “I Buddenbrook” diretto da Fenoglio?) sul piccolo schermo sta tornando in questi giorni in interviste che scandagliano il suo mestiere d’attore e di regista. Lo vedremo anche domani su RaiTre, nella diretta di Linea Notte, dopo le 24. Peccato l’ora tarda, come troppo spesso accade in un piccolo schermo preda di reality, talk e varietà sempre uguali a se stessi, ancorché privi di eleganza e spessore. Eppure, se si volesse assecondare il pubblico che ama spettacoli leggeri ma non insulsi, questo “Quattro buffe storie” figurerebbe bene nei palinsesti tv. Di Eduardo, nell’ubriacatura del trentennale della morte, ne abbiamo visto abbastanza. Pirandello e Cechov meritano altrettanto, fuori dalle commemorazioni obbligate e per ciò stesso conformistiche.