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Tutto, in occasione del centenario della nascita del notissimo artista visivo – oggi così si dice, visto che con le nuove modalità formali non è più possibile distinguere fra scultore, pittore, scenografo, artista cinetico, arredatore e quant’altro. Interessante ma non insolito – di quanti artisti contemporanei, anche astratti, fu proposto l’apparentamento coi classici, gli Umanisti, i Manieristi, i Barocchi – l’abbinamento dell’artista umbro a Piero della Francesca, culmine dell’Umanesimo quattrocentesco italiano. Alberto Burri (Città di Castello 1915 – Nizza 1995) però non è figlio d’arte. Studiò medicina laureandosi nel 1940, per poi essere inviato come ufficiale medico in Tunisia.
Fatto prigioniero, fu internato in un campo per non cooperatori in Texas, da cui tornò direttamente a Roma nel 1946. Certo c’è l’esperienza della guerra nei primi Sacchi e Plastiche bruciate alla fiamma ossidrica di Burri, per l’evidente richiamo alla carne umana lacerata e insanguinata. E bene fa Jannis Kounellis – nel documentario è uno degli artisti commentatori dell’opera dell’umbro, insieme con Bruno Ciccobelli e Michelangelo Pistoletto – ad inquadrarlo nella cornice della seconda Guerra Mondiale. Dopo l’ingresso alla Biennale di Venezia nel ’52, Burri diventa negli anni ’50-’60 una figura internazionalmente riconosciuta e addirittura mitizzata.
Negli anni ’70 il suo linguaggio cambia rarefacendosi alquanto e – lasciatosi alle spalle il materismo e l’emozionalità – assume quel carattere di semplificazione lineare e bidimensionalità che, saldandosi alla originaria formazione scientifica e oggettuale di Burri, potrebbe legittimare il richiamo alla geometria di Piero della Francesca. Ma i Crettti (di creta essiccata) e i Cellotex (compressi industriali), pur utilizzati in dimensioni monumentali come quello disteso sui resti del terremoto a Gibellina (1973), inevitabilmente si fanno espressione di una realtà inaridita, la nostra, essiccata di ogni palpito umano, in cui è sempre più difficile seguitare ad esistere. Perciò non ci sorprende che – nel documentario accanto ai commenti di Massimiliano Marianelli docente dell’Università di Perugia, di Riccardo Lorenzi curatore della mostra a Sansepolcro “Rivisitazione: Burri incontra Piero della Francesca” da cui è partito il documentario di Severi, di Bruno Corà presidente della Fondazione Albizzini Collezione Burri e altri – troviamo un’opera musicale del compositore siciliano Salvatore Sciarrino, “Ombre nel mattino di Piero”. Le chiarità mattinali della pittura perfetta e limpidissima di Piero della Francesca nella seconda metà del Quattrocento, ben poco hanno a che fare con la poetica di Burri.
La perfezione geometrica della “Flagellazzione di Cristo” (Palazzo Ducale di Urbino) basata sulla scansione della sezione aurea, le prospettive razionali estranee al divenire temporale e alle modificazioni conseguenti nelle “Storie della Vera Croce” in S.Francesco ad Arezzo, perfino la meravigliosa “Città ideale” solo attribuita a Piero della Francesca, vivono una vita sublime, possente, proiettata in una dimensione di esemplarità assoluta. Essa non sarebbe paragonabile – suppure con in comune la semplificazione formale – con le opere di Burri, espressioni dell’oggi, prosciugate e deprivate di ogni forma di vita organica, eppure insignite del Premio Feltrinelli e viste da larga parte della critica come portatrici di “purezza espressiva incomparabile”. Il documentario di Severi però indugia sui dolci paesaggi umbri della valle del Tevere, ad essi riconducendo le opere dell’artista, in una visione senz’altro originale.
In realtà è proprio la scansione ritmica dell’opera di Burri basata sulla “sezione aurea” che ci
permette di accostarlo a Piero della Francesca. Ogni opera d’arte si attiene ad una regola, anche involontaria, di costruzione e questo congiunge i lavori di ogni tempo, oppure li discosta. È questione di “grammatica”!