I contenitori di gossip,i salotti dell’inutile declinato sotto tutte le sfaccettature, rappresentano le uniche realtà televisive nelle quali, tra l’altro gli inserzionisti pubblicitari investono perchè sono foriere di ascolti. I contenuti dei programmi vengono valutati solo in base al numero di spettatori e allo share, trascurando le devastanti conseguenze che determinati argomenti, affrontati senza le giuste competenze, possono avere sulla psiche dei telespettatori più fragili.
Questa è una tv malata di egoistico presenzialismo, di sfrontata corsa ai guadagni, di favoritismi. E’ una tv che ha distrutto senza ricostruire, demolito schemi e valori senza trovarne altri in alternativa. E’ una tv gretta e meschina che vive alla giornata, deturpa i sentimenti inquinandoli con squallida retorica, annulla i tradizionali valori rispettati da almeno sessant’anni, l’età del tubo catodico.
Questa è una tv da cancellare.
La tv che vorrei deve allestire i palinsesti in funzione delle esigenze e delle aspettative dei telespettatori, rispettandone la personalità e i valori morali. Significa “educare” una generazione di conduttori al di sopra delle parti che, nei talk show abbiano ospiti i cui interventi siano funzionali all’economia della discussione. Significa proporre salotti tv nei quali non si inseguano idee precostituite, sia in politica che negli altri settori. Occorre, insomma una convincente dialettica che catturi in maniera “onesta” l’attenzione del telespettatore.
La tv che vorrei deve liberarsi delle solite starlette e divette del sottobosco televisivo il cui unico scopo è raccontare le proprie intemperanze sentimentali con al fianco l’ultimo dei toy boy. Personaggi femminili ma anche maschili che vivono di apparizioni televisive e di “gettoni di presenza” anche molto consistenti senza altra occupazione. Spesso si fanno accompagnare da figli in tenerà età che sgambettano sotto i riflettori tra l’interesse apparente di chi conduce il programma. Rappresentano la materializzazione del nulla, l’inconsistenza pagata a peso d’oro.
La tv che vorrei non deve essere un ufficio di collocamento per parenti, amici degli amici, figli, nipoti, mogli, fidanzate e compagne. Tutta gente che viene impiegata senza avere nessuna competenza specifica in programmi e fiction, molte delle quali, tra l’altro, girate in famiglia. Nel senso che a scriverle, produrle, sceneggiarle, interpretarle sono proprio i componenti di una stessa famiglia. Qualche esempio? Le fiction prodotte dalla famiglia di Ricky Tognazzi, di Renato Pozzetto, di Bud Spencer. Forse è questo il significato che la Rai dà al racconto televisivo etichettato come “fiction per famiglia”?
La tv che vorrei deve essere meno ingolfata di ospiti in promozione: personaggi dello spettacolo, del teatro, soprattutto del cinema e della musica leggera, del giornalismo, abbandonano il dorato mondo nel quale vivono, lontani dai media che snobbano, compaiono in tv solo per reclamizzare i propri lavori. vanno ovunque, fanno il giro delle sette chiese televisive, si propongono in tutte le vesti e i ruoli più strani pur di raggiungere l’obiettivo: mandare il telespettatore a cinema, a teatro, in libreria a comprare il proprio libro. Basti pensare a Luca e Paolo che, con le loro presenze quasi ossessive, finiscono per diventare fastidiosi; Bruno Vespa, come gli attori e i registi dei cinepanettoni, compare in prossimità delle feste di fine anno per pubblicizzare l’ennesimo libro in uscita. Mai un direttore d’orchestra che reclamizzi il proprio concerto, o un tenore che pubblicizzi la propria opera, o un direttore di musei che inviti il pubblico a visitare una specifica mostra.
La tv che vorrei è priva di trash e le parolacce sono bandite in ogni contesto e in ogni situazione. E’ composta da autori, conduttori che invitano Vittorio Sgarbi per la sua competenza di critico d’arte e non come fomentatore di liti e risse da suburra. E’ gestita da dirigenti che allontanano definitivamente dalle loro reti personaggi che imprecano, urlano, litigano, e richiamano al rispetto e al senso del dovere, conduttori che speculano sulla credulità dei telespettatori punendoli anche con sanzioni economiche.
La tv che vorrei deve lanciare nuove idee e sperimentare format originali senza sfruttare all’infinito prodotti consolidati dall’audience bruciandone la validità, consumandoli lentamente fino all’esaurimento. Io canto, il programma di Gerry Scotti, proposto nella quinta edizione è crollato ai minimi storici, mentre gli infiniti sequel di fiction col trascorerre degli anni, hanno perso ogni appeal e si trascinano tra espedienti narrativi poco credibili. Si pensi a Un medico in famiglia, ai Cesaroni, alla stessa Squadra antimafia. E soprattutto, la tv che vorrei deve limitare il numero di format di importazione che, solo per venire adattati per il pubblico italiano, richiedono una pletora di autori. Un esempio? Altrimenti ci arrabbiamo, il programma flop condotto da Milly Carlucci lo scorso maggio. Ben undici autori per rivisitare il format in chiave nostrana.
La tv che vorrei deve rispettare l’infanzia e non trasformare i bambini in cloni degli adulti sfruttandoli per incrementare l’audience in trasmissioni non adatte alla loro età. E non si tratta solo di programmi come Io canto e Ti lascio una canzone. Si tratta di un trend che si è insinuato nei palinsesti e fa leva sull’ingenuità infantile per divertire i grandi. Restituire all’infanzia la dignità televisiva perduta è uno degli obiettivi più urgenti da raggiungere