Perchè è difficile, salvo rarissimi casi, che nella fase calante della propria carriera, si accetti la realtà e si scelga di cambiare registro, magari impegnandosi in una nuova attività. La pubblicità resta comunque una professione rifugio.
D’altro canto può rappresentare anche il mezzo per arrivare alla grande notorietà. Moltissimi i personaggi che, reclamizzando un tè ghiacciato o magari un’azienda di telefonia mobile, hanno iniziato la loro carriera. Sono stati lanciati proprio grazie ad uno slogan, una canzone, un motivo musicale, ripetuto all’infinito. Uno per tutti: “Antò fa caldo” ripeteva fino all’esasperazione, una Luisa Ranieri ancora sconosciuta e lontana dal diventare la signora Zingaretti. Quel benedetto tè, sorbito con sensuali e languidi sospiri, ha fatto la sua fortuna.
Ricordate la giovanissima Gaia Bermani? Nel 2000, come testimonial della TIM, ha vagato su una barca a vela in compagnia della dj Petra Loreggian e della skipper professionista Cristiana Monina. Per due anni, una serie di fortunati spot la consegnano alla grande popolarità. Al punto che Gaia diventa uno dei nomi preferiti per le bambine nate in Italia in quel periodo. Da qui, anche per lei, il passo per la metamorfosi in attrice è stato breve. Massimo Lopez, ancora oggi, è ricordato come il testimonial della Telecom, quello secondo cui davvero “una pubblicità allunga la vita”. Frase celebre, slogan gentile malamente riesumato oggi dall’insostenibile Pif che, come in una metamorfosi kafkiana, si è trasformato in un irritante testimonial, onnipresente da un capo all’altro dell’etere. L’artista, inizialmente al di fuori della volgare logica televisiva, sta logorando la propria immagine con un ossessivo presenzialismo. Risultato: la perdita di quell’aura intellettualeggiante ma gradita e la discesa negli inferi della nazional- popolarità.
Medesimo discorso per Sabrina Ferilli che, per gli utenti della tv oramai si identifica col famoso sofà. Prima la frase ambigua “beato chi so fa, il sofà”, successivamente quella piu sobria, ma non meno irritante, “poltrone sofà, gli artigiani della qualita”. Forse per questa discutibile concessione all’universo pubblicitario meno nobile, la Ferilli è stata emarginata come interprete del film Premio Oscar La grande bellezza.
La pubblicità non dovrebbe essere volgare ma gestita con ironia e buon gusto. L’esempio piu significativo, in quest’ottica, è offerto da Fiorello. Mitici gli spot interpretati con Mike Bongiorno per Infostrada. Piccoli capolavori di creatività, di leggerezza, di intelligente humour. Questi spot hanno consentito allo show man di conservare il medesimo appeal anche quando non era presente in radio, in tv e a teatro. Altra testimonial, che si è gestita con ironia e leggerezza, è stata Sophia Loren con la pubblicità del prosciutto made in Italy. Il garbato invito all’acquisto sintetizzato con il termine napoletano “accattatevello” (compratelo) ha fatto il giro del mondo.
La volgarità, troppo spesso, è divenuta sinonimo di pubblicità: l’ostentazione gratuita del corpo femminile, lo sfruttamento in pose provocanti e senza veli, gli espliciti ammiccamenti sessuali, magari per reclamizzare solo una caramella, sono la rappresentazione di una donna-oggetto asservita ai soliti fini commerciali. Vi si aggiungano le discutibili performance come testimonial di personaggi come Rocco Siffredi (con le sue patatine) per avere la dimesione di quanto la donna sia ancora strumentalizzata in pieno terzo millennio
Invasiva e irritante, la réclame piomba nelle case degli italiani con spot che magnificano le virtù di creme per pruriti vaginali o per le emorroidi, di miracolosi pannolini e pannoloni assorbenti. Il tutto a ora di pranzo o di cena. C’è un motivo che spinge a inserire, in quelle fasce orarie, determinati spot: sono gli orari canonici nei quali la tv generalista e nazional- popolare crede che la famiglia italiana sia riunita per consumare i pasti. Si ritiene che il messaggio possa avere la massima efficacia.
Un discorso a parte meritano i testimonial pubblicitari da oltre oceano. Una pletora di “immigrati di lusso” continua a sbarcare in Italia a caccia di compensi milionari, per qualche parola pronunciata a volte neanche in italiano. Da George Clooney con il suo “No Martini no party”, fino a Kevin Koster che non balla più coi lupi ma mangia un tonno in scatola e lo ritiene “so good”. Per non parlare della gallina del Mulino Bianco che sembra guardare con sufficienza il pluri- divo Antonio Banderas mentre prepara i suoi biscotti. Impressionò qualche anno fa, Julia Robert che pretese la “modica cifra” di un milione di dollari per non pronunciare nemmeno un parola, ma solo per esibire un sorriso a 32 denti nello spot del Caffè Lavazza. Divi, forse, in caduta d’immagine, alla ricerca di una rinnovata popolarità, oppure star che si concedono come testimonial fuori patria consapevoli di trovare, quasi sempre, l’America in Italia.
Ma quali motivi spingono i soliti noti a trasformarsi in “testimonial selvaggi”? Possibile che si tratti solo del “vil denaro”. Possibile che sia sempre e solo il motto pecunia non olet a condizionare tali scelte? La risposta è più complessa: spesso i divi si trasformano in testimonial esclusivamente per il mercato estero, girano cioè spot che non sono visibili nelle nazioni di origine. Nessuno negli USA si interesserebbe del tonno pubblicizzato da Costner o berrebbe il caffè Lavazza. In questo modo amplificano la loro popolarità oltre confine e non deteriorano la propria immagine in patria.
In Italia, molti personaggi si dedicano alla pubblicità perchè vogliono mettersi alla prova a 360 gradi e dimostrare la poliedricità delle proprie capacità professionali. In quest’ottica si inquadrano le discutibili performance pubblicitarie di Enrico Brignano negli assillanti spot del caffè che si beve in Paradiso. Stesso discorso per personaggi come la Littizzetto e Pif che hanno abdicato alla propria “aura” intellettuale e non disdegnano di concedersi alla pubblicità per ragioni puramente economiche. Spesso anche tra le polemiche.
Al richiamo della pubblicità oramai non resistono neppure i grandi registi: lo stesso Federico Fellini curò la regìa di tre spot pubblicitari, l’ultimo per la neonata banca di Roma, dopo quelli realizzati per Campari e Barilla. I colleghi che l’hanno seguito, hanno ripercorso le stesse orme: perchè spesso, in periodi di magra, anche un “director” blasonato non disdegna le sirene della pubblicità. Fellini, infatti prima di girare lo spot sulla banca di Roma era inattivo da due anni.
Oramai l’insistente e irritante messaggio pubblicitario ha scavalcato il piccolo schermo e ha invaso anche il web. Impossibile assuefarsi all’incredibile pressione degli spot che, all’improvviso, coprono le pagine Internet impedendone la lettura. Spesso non è possibile neppure liberarsene attraverso il tasto “chiudi” perchè , con prepotenza, insistono per tutto il tempo per cui sono stati programmati.
Non è questa la pubblicità che dovrebbe essere l’anima del commercio. Questa è solo una pubblicità senz’anima.