Come può, in queste precarie condizioni, la fiction televisiva farsi interprete di una “genitorialità” positiva?
Analizziamo un’altra serie, Un medico in famiglia, giunta all’ottava stagione. Forse, non tutti ricordano che il dottor Lele Martini, nelle prime due edizioni, era un vedovo che aveva sposato la cognata Alice Solari, interpretata da Claudia Pandolfi. Sia Giulio Scarpati (Lele Martini) che la Pandolfi erano allora (nel 1998) quasi illustri sconosciuti. Il successo della fiction li consegnò subito alla grande popolarità. Dopo due edizioni la Pandolfi volle andar via, non prima di aver scodellato, nel ruolo di Alice, due gemellini al consorte che, a sua volta, scomparve, salvo ritornare recentemente. Una miriade di figli e nipoti è vissuta senza genitori, affidati alle cure di nonno Libero (Lino Banfi). Ufficialmente i genitori erano all’estero per lavoro,incuranti della crescita dei propri figli.
In realtà i due “genitori per fiction” non hanno resistito alle sirene della popolarità che ha fatto lievitare i loro cachet e li ha spinti ad accettare nuove proposte professionali.
Un giorno, poi, Lele Martini torna in pista per il matrimonio della figlia Maria ma intanto, a cinquant’anni suonati da un bel po’, si rifidanza e mette al mondo un altro figlio. Un pargolo destinato a crescere senza padre, visto che Scarpati ha deciso di andar via di nuovo dalla serie. Insomma, amori che vanno e vengono con scarsissima credibilità
Si ha la netta sensazione che anche la serialità italiana si stia “Beautifulizzando”: nel senso che, quando non si hanno idee nuove, si insiste su vicende familiari poco credibili o si ricorre a una serie di improbabili love story come è accaduto a Ridge Forrester e Brook Logan nella soap opera americana. Altra conseguenza di questa paradossale situazione è l’allontanamento forzato dei genitori dai figli che avviene, quasi sempre, a causa di contrasti, mai per la maturazione dei giovani che scelgono, in armonia con i genitori, di andar via da casa.
Tutto questo perchè a far la parte del leone, nella sceneggiatura, è la conflittuale scansione degli eventi. Nel senso che, se tutto filasse liscio, non ci sarebbero curiosità, interesse, voyeurismo, da parte del pubblico. Mamme e padri devono prima essere in contrasto con se stessi, poi tra di loro, e successivamente con i propri figli. La drammatizzazione deve creare una evidente litigiosità alimentata da cattiveria, gelosia, passioni pericolose, rincorsa al potere, anche tra genitori e figli, sorelle e fratelli. E’ accaduto nella recente serie Rosso San Valentino (Rai1) con la rappresentazione molto discutibile, di famiglie allargate e con una spietata lotta del fratello minore contro il maggiore per il dominio dell’azienda di famiglia. Anche la figura materna è apparsa depauperata da un egosimo che antepone le ambizioni personali ad ogni altro sentimento.
Questo carico di lotte familiari, contrasti, odi e vendette, viene presentato come “saga familiare” e sussiste anche in altre serie, tra cui Una grande famiglia trasmessa da Rai1 Le tre rose di Eva, targata Mediaset di cui Rosso San Valentino è considerata un’emanazione.
Parlare, quindi, di cattivi esempi “genitoriali” corrisponde ad una realtà ridondante nella lunga serialità. Talvolta si cerca di ingentilire il rapporto conflittuale e aspro, la mancanza di dialogo tra adolescenti e genitori, con la lente dell’ironia e della satira sociale. E’ accaduto in “Tutti pazzi per amore”, la serie di Rai1 che, partendo da una piccola base veritiera, deformava paradossalmente le situazioni. Una delle protagoniste, Laura ( l’attrice Carlotta Natoli), dopo aver perso il marito Michele (Neri Marcorè) fulminato da un infarto sull’altare, impiega una stagione a conquistare il cognato ornotologo (Alessio Boni) da cui ha un figlio. E quando Boni se ne va dalla serie, lei madre svampita, cede ad un nuovo amore. Il tutto trattato con atmosfere da commedia musicale. Una maniera nuova per la fiction nostrana, di coinvolgere il più ampio target di pubblico. Compreso il pubblico adolescenziale che tende a identificarsi nei personaggi seriali preferiti. Proprio questa platea televisiva ha amato I Cesaroni e Un medico in famiglia, forse senza rendersi conto che la “genitorialità” proposta era mortificata da esigenze di audience.
Le eccezioni sono davvero poche. Tra queste la serie “Ho sposato uno sbirro” trasmessa da Rai1 con Flavio Insinna nella quale il protagonista e la sua compagna sono buoni genitori delle loro due gemelle. Il tutto accade, però, in quanto la linea d’azione è concentrata sulla professionalità dei due protagonisti ambedue poliziotti che hanno momenti di crisi ma non vengono meno alla loro missione di genitori.
Anche la serie Il maresciallo Rocca aveva proposto un esempio positivo di “genitori per fiction”. Rocca (Gigi Proietti) già vedovo con tre figlii e la seconda moglie Margherita (Stefania Sandrelli) procedevano in sintonia matrimoniale e avevano anche adottato un bambino. La figura paterna del protagonista mantiene la propria valenza anche quando nella vicenda entra Veronica Pivetti nel ruolo della terza compagna del protagonista. Piccolo capolavoro della sceneggiatrice Laura Toscano.
Il discorso non è molto differente per le miniserie. In due puntate si è costretti ad accorciare i tempi della drammatizzazione e lo scorrimento degli eventi deve essere necessariamente più veloce. Qui non c’è pericolo dei capricci degli attori che all’improvviso lasciano la fiction, ma comunque si confermano, come punti fermi, il ruolo superficiale della madre e del padre e la improbabile conflittualità generazionale che alla fine, in tempi più stretti, trovano un compromesso rassicurante per l’happy end finale.