Questa straordinaria avventura umana delle dimissioni del Papa costituisce un eccezionale evento di comunicazione, oltre che di spiritualità. In pochi giorni, dall’11 settembre ad oggi, il mondo intero, attraverso il tam tam planetario costituito dalla televisione – mezzo maturo ma sempre giovane che investe il 98 per cento della gente, in pratica tutti noi – ha ripreso coscienza della presenza viva della Chiesa. E’ stata attualizzata un’antica e insieme nuova liturgia che coinvolge chi crede e anche chi non crede attraverso un gesto di rottura esemplare per tutti.
Nei primi momenti non pochi hanno dubitato – ed io ero tra questi – della saggezza umana di tale decisione. E’ sembrato crollare un bastione della coerenza cristiana, fin’allora concepita “usque ad mortem”: il mistero di chiudere una funzione solo in conseguenza di una volontà superiore. Ci si è interrogati sulla scelta di un Papa che, avendo combattuto con tutte le sue forze il relativismo dei valori, rendeva “relativo” il proprio mandato. Invece col passare dei giorni ci si è via via resi conto che era non solo una strada ammissibile, ma la strada giusta per rilanciare un messaggio di umanità e di fede.
Il pensiero sociologico ha cominciato ad almanaccare ragioni che rendevano comprensibile il gesto, a cominciare dall’allungamento della vita che aveva già suggerito alla Chiesa di mettere a riposo a una certa età anche cardinali e vescovi.
Ma via via vanno emergendo ragioni molto più profonde. Non c’è solo una vita che si allunga e prolunga l’arco di una vecchiaia sempre più indebolita per tante persone chiamate semplicemente a mantenere un margine di vitalità nei rapporti familiari. C’è anche il fenomeno simmetrico e complementare di una realtà sempre più complessa e accelerata, che specie per persone che hanno una funzione pubblica esige una capacità di comprensione e di decisione che solo qualche tempo fa neppure si immaginavano. In una società statica, com’era quella agricola o anche quella dell’industrialesimo classico, un corpo sociale come quello della Chiesa poteva continuare a vivere e persino a incrementare la propria spiritualità anche con un Capo in grave difficoltà, com’è avvenuto solo un decennio fa con il calvario di Giovanni Paolo II.
Possiamo chiederci se le cose si siano tanto rapidamente evolute pur in un così breve lasso di tempo. Il “ritiro” di Benedetto XVI ci pone proprio questa domanda, che è una domanda legittima, anzi doverosa, proprio per il bene della Chiesa e del mondo, in cui una voce tanto importante come quella del Papa non può tacere. Il coraggio del suo gesto sta nell’aver posto questo interrogativo, nella piena consapevolezza che esso avrebbe cambiato – come sta cambiando – il corso della storia.
Tutti sappiamo che l’obiezione più profonda è stata mossa, pur con rispetto, dal “don Stanislao”, Stanisław Dziwisz segretario particolare per quarant’anni di Wojtyla e oggi cardinale polacco e arcivescovo di Cracovia, quando alluse al fatto che papa Giovanni Paolo II “non era sceso dalla croce”. Certamente a lui avrà pensato Papa Benedetto quando, parlando dal balcone di Castel Gandolfo per l’ultimo saluto da papa regnante, ha detto che neppure lui scendeva dalla croce, ma continuava a servirla in un modo appartato e più dedito alla preghiera.
Ciò di cui tutti ci andiamo persuadendo è che prima o poi ci sarebbe stato qualcuno che, prendendo piena coscienza del cambiamento, si sarebbe posto il problema di come servire nel modo migliore il messaggio cristiano, resistendo oppure anche lasciando ad altri quello stesso bastone che aveva accompagnato Pietro fino a Roma. Una Roma che oggi si dilata fino a diventare un pianeta che sta subendo una trasformazione epocale, cui non possiamo rimanere insensibili.
Un effetto evidente di questa decisione è quello di aver riproposto la Chiesa al centro dell’attenzione mondiale. E qui va spesa una parola sulla comunicazione attuata in questa circostanza. La Chiesa è sempre stata maestra di liturgia, cioè di comunicazione simbolica. A chi rileva la sproporzione – innegabile – tra la sontuosità delle cerimonie e l’essenzialità del messaggio cristiano si può ricordare che Cristo stesso pur nella strada della povertà (cavalcava un asinello “francescano”) e del martirio, è stato il più grande maestro di comunicazione, orale (il discorso della montagna), scritta sul terreno (l’episodio dell’adultera), gestuale, simbolica e sostanziale (l’istituzione dell’eucarestia). In questi giorni la Chiesa – come in altri felici momenti della sua storia anche recente, fatta di Papi di eccezionale statura – sta creando una sutura tra la sua organizzazione gerarchica, necessaria a una struttura “cattolica”, cioè fisicamente universale, da una parte, e la semplicità delle origini, dall’altra.
Tanto è vero che mai come in questi giorni si è parlato di un rilancio del Concilio Vaticano II, per quanto concerne l’attuazione dei suoi indirizzi, specie in tema di collegialità. La riprova è data dal fatto che in un brevissimo lasso di tempo ci si è resi conto che mai il Papa è stato meno solo di adesso, contornato com’è dall’amore non solo di preti e monache, ma di tutti i fedeli e anche di tanti non credenti.
Un’ultima considerazione in fatto di capacità comunicativa, forse un po’ irriverente ma realistica. Perché il Papa ha scelto di lasciare alle otto di sera dell’ultimo giorno di febbraio? Quell’ora coincide con la diretta di tutti i maggiori telegiornali italiani e di gran parte di quelli europei. E le immagini, sono state di eccezionale intensità, talora con inquadrature riprese anche alle spalle del Santo Padre rivolto ai fedeli, curate dal Centro Televisivo Vaticano. Il giorno della settimana, poi, è stato un giovedì, consentendo l’ultima udienza generale del mercoledì, con un abbraccio a una folla sterminata. E ogni giorno, dall’11 febbraio, è stato dedicato a momenti forti, sia di contatto con i fedeli, sia di ritiro in meditazione e preghiera. Possiamo dire veramente: un capolavoro di comunicazione. Un capolavoro destinato a rimanere nella storia dell’umanità. E chissà quante cose ancora si potranno scoprire, nel futuro, di questi momenti che noi suoi contemporanei abbiamo avuto il privilegio di vivere in diretta.
Un capolavoro di comunicazione, anche televisiva
1 Marzo 2013
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