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“Mio nonno mi ha insegnato l’ironia”, dice Nino davanti alla macchina da presa del figlio Luca nel documentario autobiografico girato in occasione degli ottant’anni (e dei sessanta di carriera). Manfredi – intervistato da Massimo Ghini – è qui un anziano bonario, saggio e insieme guizzante di vitalità, espressa ogni tanto nel ritorno al dialetto ciociaro. Un vecchio stavolta per documento anagrafico, dopo esserlo stato per decine di volte per sapiente trucco e interpretazione nei film e negli sketches televisivi, a partire dal lieve e insieme pensoso Geppetto comenciniano. Scrisse una volta in un quadernetto di appunti conservato dalla moglie Erminia: “Del buio, del mistero, della morte. Quando incontravo un vecchio pensavo alla morte. Spesso mi ritrovavo accanto a lui per fare un tratto di cammino insieme. Mi scoprivo ad imitarlo, a camminare da vecchio, a sentirmi vecchio, alla fine della vita. Poi, invece, pensavo che ero giovane e che avevo ancora tanto tempo davanti a me e mi mettevo a correre”.
C’è un’intera sala dedicata alle interpretazioni manfrediane di vecchi nella mostra “Nino!” (sì, con il punto esclamativo, come nel biopic dedicato a un’altra icona romana, Verdone, intitolato appunto “Carlo!”) appena inaugurata al Museo di Roma, in Palazzo Braschi (piazza Navona 2, fino al 6 gennaio, da martedì a domenica, ore 10-20). Il babbo del burattino di legno, certo (con tanto di ricostruzione della bocca della balena, dove il visitatore si può infilare, e la scrivania, la lucerna, i libri di Geppetto rifugiato dentro quell’antro mosso dal mare e dal respiro del mostro). Ma anche il disfatto Giacinto Mazzatella di “Brutti, sporchi e cattivi”, l’ambiguo Girolimoni, il florido cardinale Felicetto de li Caprettari di “Signori e signore, buonanotte”.
Tutti personaggi usciti dall’abilità “zelighiana” di Manfredi, che un’altra sezione della rassegna testimonia, proponendo al visitatore una carrellata di facce di Nino. Da Romoletto in “Susanna tutta panna” a Titino Sabatini in “Riusciranno i nostri eroi…”, da Angelo Brunetti-Ciceruacchio in “In nome del popolo sovrano” a Marino Balestrini vestito da spagnola in “Straziami ma di baci saziami”, fino a Ugo “piede amaro” Nardi ne “L’audace colpo dei soliti ignoti”. “Alberto Sordi era geniale ma ripeteva sempre lo stesso tipo umano – nota Gianni Canova – Nino no. Nino ogni volta si mette alla prova, rischia, sperimenta, si sfida. La sua tecnica recitativa opera continue scomposizioni del volto attorno a un grumo di emozioni ricorrenti: esitazione, sconcerto, ansia, dubbio, diffidenza, stupore”.
Lui diceva di non essere attor comico, piuttosto drammatico. Ma forse, se c’è un’attitudine che lo caratterizza di più è quella del disincanto. Illuminante in questo senso un’interpretazione televisiva che l’apparecchio stile anni Cinquanta esposto a Palazzo Braschi in un angolo di una cucina autenticamente d’antan ripropone, insieme ad altre tratte da Rai Teche. Manfredi intona (da quel cantante sopraffino che sa anche essere, oltre che sceneggiatore, regista e via elencando) un suo cavallo di battaglia, “Tanto pe’ cantà”, di Petrolini. Davanti alla telecamera l’atteggiamento è appunto da disincantato sbruffone, che nasconde dietro la propria spavalderia un’amarezza congenita: “perché nel petto me ce naschi un fiore”, modula con la testa reclinata all’indietro, le gambe larghe, lo sguardo fisso di chi non spera. Un topos delle presenze di Manfredi sul piccolo schermo, che ne fecero beniamino del pubblico prima dei cinefili.
Quei telespettatori ottimisti degli Anni Cinquanta, che si riunivano la sera davanti al tubo catodico, con la voglia di divertirsi nelle quattro mura di casa e la sicurezza delle magnifiche sorti e progressive dell’Italia del boom. Eccole, le Canzonissime che schieravano Manfredi accanto a Delia Scala e a Paolo Panelli (il quale con Nino aveva frequentato l’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, a dire della formazione magistrale dei divi della tv d’antan). Eccola, la macchietta del barista di Ceccano, quello che compra il biglietto della Lotteria e ripete il mantra “fusse che t’arifusse la vorta bbona”. Eccoli i Caroselli del Caffè Lavazza, allorché Manfredi sentenzia sorseggiando “più lo mandi giù e più ti tira su”.
E’ il palinsesto di un Paese solare e allegro, fiero di una Capitale ombelico del mondo, meta delle star e del jet set. Roma sfondo dei film di Manfredi è un altro dei fil rouge della rassegna: lui è davanti a Piazza Navona in “Adulterio all’italiana” di Festa Campanile, a Piazza del Popolo in “C’eravamo tanto amati” di Scola, a Piazza Augusto Imperatore in “Femmine tre volte” di Steno. Lungo l’elenco capitolino, il legame interpretativo di Manfredi con la città che lo ha adottato: da Rugantino è stato capace di entusiasmare cantando in romanesco “Roma nun fa la stupida stasera” gli yankees di Broadway (e un filmato inedito della tournée in Usa impreziosisce l’esposizione di Palazzo Braschi); da Pasquino si vanta “so la voce de Roma, der marcontento popolare, cornuto so’ e cornuto resto” davanti a Claudia Cardinale in “Nell’Anno del Signore”.
Di anni ne sono passati dieci dall’addio di Nino. L’omaggio di questa mostra è all’artista e all’Italia bella che fu.