Ed ha avuto come conseguenza anche il rafforzamento della funzione dell’Unione Europea di Radiodiffusione (UER-EBU), che, da sbiadito organismo ricordato solo per l’antica trasmissione ‘Giochi senza frontiere’, è stato chiamato in questa situazione a giocare un ruolo di supplenza, nel tentativo di colmare il vuoto lasciato dalla sospensione delle trasmissioni greche. E c’è in parte riuscito dando la percezione che l’Europa delle televisioni pubbliche può essere una realtà effettiva capace di accorrere nelle emergenze e di favorire nei cittadini del continente la circolazione di flussi culturali incanalati nelle onde dell’etere.
Anzi, sotto questo profilo, i servizi pubblici europei dovrebbero interrogarsi, sia singolarmente, sia nei loro organismi associativi, se stanno assolvendo veramente alla loro missione di canali di reciproca conoscenza e di scambio di esperienze culturali tra i diversi popoli, specie in un momento in cui l’Unione Europea si arricchisce di nuovi partner, portando a 29 le nazioni aderenti, con l’ammissione della Croazia. Questa circolazione di messaggi è tanto più importante in un continente caratterizzato da tante etnie, tante tradizioni, tante lingue diverse, che rendono l’amalgama molto più difficile da quello realizzato ad esempio nel continente americano con la nascita degli Stati Uniti, dove le differenze linguistiche e culturali sono molto meno marcate, pur sussistendo ancora divisione profonde che quel sistema democratico consente via via di superare, come l’elezione e la conferma di Obama alla Casa Bianca ha dimostrato.
Il nostro vecchio continente invece continua ad arrancare. Anche le conquiste politiche, sociali ed economiche finora realizzate, come la moneta unica, la libera circolazione delle merci e delle persone, una certa corrispondenza dei percorsi formativi e dei titoli di studio, continuano a dover essere difese dal rischio di tornare indietro invece di essere percepite come dati acquisiti su cui costruire il futuro.
Nel campo della comunicazione televisiva, poi, sono rimaste intatte le antiche barriere per cui ogni Nazione coltiva il proprio orto senza neppure conoscere quello del vicino. Neppure la proliferazione dei satelliti -abbiamo sui nostri cieli due formidabili piattaforme, quella di Eutelsat, più centro mediterranea, e quella di Astra, più nordeuropea- ci ha fatto fare passi in avanti nella conoscenza reciproca.
Se voi vi chiedete qual è il Fiorello di Francia, di Germania, di Inghilterra, di Spagna, di Portogallo, di Polonia, per non parlare di Paesi minori, non ne avete la minima idea, e vale il reciproco. Lo stesso riguarda i giornalisti e le giornaliste radiotelevisive. Certo, c’è la difficoltà data dalla babele linguistica non ancora superata, ma non si avverte il minimo sforzo inteso a diffondere messaggi veramente sovranazionali. Unico elemento unificatore restano naturalmente i grandi eventi sportivi per una gran massa di pubblico e il linguaggio della musica per pubblici giovanili e per le élites culturali che amano il repertorio classico. Resta poi da ricordare il telegiornale europeo ‘Euronews’, tuttora esistente, dovuto alla tenacia di un dirigente italiano, Massimo Fichera, che lasciò la Rai negli anni ’90 per buttarsi in quell’avventura.
Tutto questo fa capire quanto sarebbe importante praticare a fondo le strade che nel giro di qualche generazione, ci possano far dire: ‘fatta l’Europa (sperando di mantenerla), finalmente facciamo anche i cittadini europei’. Ed i tasti da battere sono i soliti due: formazione e informazione. Per la formazione si è parlato di estendere a tutti gli studenti europei il progetto Erasmus: sei mesi o un anno di università da fare all’estero con tutte le assistenze necessarie a favorire una vera integrazione. Per l’informazione schiodare i servizi radiotelevisivi dalla loro cornice esclusivamente nazionale, con programmi capaci di ottenere sia livelli di buon gusto, qualità, curiosità per le ‘vite degli altri’, ma anche apprezzabili livelli di ascolto, ferma restando la famosa frase di Biagio Agnes, quando era direttore generale della Rai: «Una televisione pubblica che è vista da poca gente (come la PBS americana) non è una televisione pubblica».
Tornando alla Grecia, siamo un po’ sollevati alla notizia che ERT, fondata nel lontano 23 febbraio 1966, abbia ricominciato a trasmettere con il nuovo nome EDT, ma siamo anche preoccupati che i servizi pubblici europei non abbiano tratto tutte le conseguenze da quella drammatica lezione. La stessa vicenda ha avuto da noi quei risicati spazi che si concedono alla cronaca negli striminziti servizi di un minuto e dieci secondi dei telegiornali, salvo un talk show di Massimo Bernardini per i programmi educavi della Rai.
Il caso-Grecia dovrebbe, al contrario, aprire un grande dibattito sul ruolo dei servizi pubblici radiotelevisivi e ormai anche multimediali europei a contribuire alla fondazione culturale, giornalistica, di spettacolo ed educativa del Continente. Sennò in un domani qualche altro “pezzo” sarà posto a rischio di estinzione per le note ristrettezze economiche e nessuno si troverà a rimpiangerlo.
E tutto questo capita proprio nel momento in cui l’opinione pubblica è non dico più favorevole ma certamente meno contraria al concetto e alla prassi di servizio pubblico. Nelle convulsioni di questo nostro periodo la gente si accorge dell’utilità di una ‘voce’ meno schierata, più indipendente, più libera, più autorevole, più attenta alle professionalità, diciamo pure più orientata al bene comune. Occorre, però, che questa ‘voce’ dimostri di essere consapevole delle aspettative che l’opinione pubblica ripone in essa.