Ricordo in particolare i numeri dedicati all’alluvione del Polesine, un evento di eccezionali dimensioni che procurò numerose vittime e la devastazione di un enorme territorio.In quell’occasione nacque anche il programma radiofonico della Rai intitolato “La catena della fraternità” che in una lodevole gara tra tutte le sedi della Rai magistralmente condotta ogni sera dagli annunciatori, raccolse un’ingente somma a favore degli alluvionati e per la ricostruzione. E il campanilismo tra Roma e Milano giocò la sua parte, con la vittoria del capoluogo lombardo. Eravamo nel 1951 e fu proprio in tale periodo che Biagi fu chiamato a lavorare per “Epoca”, con notevoli risultati legati anche alla sua dimestichezza con la terra contadina in cui era nato, a Pianaccio di Lizzano, sull’Appennino bolognese, e che aveva calpestato nella sua esperienza di partigiano, già con una funzione giornalistica in quanto redattore unico del giornale Patrioti.
Con il numero di Epoca dedicato all’alluvione del Polesine, Biagi iniziò la sua collaborazione al periodico della Mondadori. In tale circostanza la Rai promosse una raccolta di fondi attraverso l’iniziativa radiofonica intitolata “La catena della fraternità”
Successivamente sarà un suo scoop sul caso di Wilma Montesi, che portò alle dimissioni del Ministro Attilio Piccioni, con ventimila copie in più rubate alla concorrenza in una sola settimana, a fargli guadagnare la poltrona di direttore.
Ma torniamo al nostro incontro. Allora ero uno dei redattori del giornale studentesco “Berchet 59”. Ci separavano vent’anni di vita e un abisso di esperienze. Biagi la guerra l’aveva vissuta e si era schierato. Io ne ero stato solo sfiorato nei primi anni di vita. Perché andare a parlare con lui? Certo, per l’apprezzamento per la sua rivista, il più prestigioso settimanale italiano, che leggevo con assiduità specie per la rubrica “Memorie dell’epoca” tenuta da Augusto Guerriero con lo pseudonimo di Ricciardetto. Di origine ebraica, di tendenza inequivocabilmente laica, Ricciardetto era, per così dire, fortemente tormentato dal problema religioso, come traspariva nella sua corrispondenza con i lettori. E questo coincideva profondamente con i miei interrogativi e la mia sensibilità di adolescente, periodo nel quale il tormento delle cause ultime è particolarmente acuto e indirizza alla fine tutto il resto della propria vita.
Il secondo motivo dell’incontro con Biagi era molto più banale, ma estremamente concreto. Le finestre della Mondadori e della direzione di “Epoca” erano quasi di fronte a quelle di casa mia, in via Bianca di Savoia, a Milano. E spesso fantasticavo sul brulichio di attività che doveva svolgersi dietro quei vetri. Non fu difficile attraversare la strada, chiedere un appuntamento e, sorprendentemente, ottenerlo in pochi giorni. Non ero solo in questa avventura. Mi accompagnava Mirella Bocchini, anche lei all’ultimo anno di liceo classico al Berchet e redattrice del giornale d’istituto. Un incarico impegnativo, perché i sei redattori erano eletti dall’intera assemblea studentesca d’istituto a conclusione di dure battaglie che allora (e forse anche ora) dividevano il campo dei “cattolici” da quello dei “laicisti”, a conferma che da sempre, a ben vedere, l’Italia è attraversata dalla lotta tra Guelfi e Ghibellini.
Del resto erano anche i tempi de “La Zanzara” del Liceo Parini. A rendere più aspra questa contesa, poi, c’era da qualche anno (intorno al 1955) la presenza nella scuola di un giovane sacerdote molto combattivo e determinato, don Luigi Giussani, che non solo era riuscito a ottenere nelle sue classi un silenzio tombale anche quando l’ora di religione era la quinta della mattinata, ma aveva, per così dire, determinato l’agenda setting del liceo, sfidando i ragazzi ad ammettere o a rifiutare il fatto che il problema centrale dei giovani – e non solo di loro – era il senso religioso, l’interrogarsi sul significato dell’esistenza prima ancora delle questioni politiche e sociali che da sempre venivano dibattute nei corridoi durante l’intervallo. E non mancava di rilevare polemicamente che proprio questo senso religioso era stato cancellato da quasi tutte le espressioni della cultura e dell’arte a partire dall’illuminismo ad oggi.
Come vedete c’era un misterioso filo conduttore che legava tutte quelle esperienze: un settimanale stimolante, un ambiente scolastico quanto mai vivace, una vicinanza fisica con la Mondadori. Mirella ed io entrammo con rispetto misto a curiosità nel grande ufficio di Enzo Biagi, che mi pare fosse al piano terreno, con il tipico disordine dei giornalisti che appoggiano qua i là i ferri del mestiere del loro lavoro quotidiano: libri, giornali, ritagli. Ci dette subito l’impressione – ma fu poi una certezza – di una grande disponibilità, l’esatto contrario di chi ti accogli guardando l’orologio al polso. La cosa più sorprendente fu che non fu lui a parlare, ma volle far parlare noi, voleva essere lui a conoscerci. Però, se non parlava la sua bocca, parlava il suo atteggiamento. Non si sa per quale inspiegabile sfumatura, dava l’impressione di una persona estremamente partecipe, quasi in sofferenza. Ci prendeva sul serio, molto sul serio, ed era questo un invito ad aprirci. E con tutta l’inevitabile misura di ingenuità giovanile, ci aprimmo profondamente. Gli raccontammo gli episodi più vivaci e anche contrastati della nostra esperienza liceale, gli parlammo della nascita del movimento di Gioventù Studentesca, che per la prima volta in ambiente cattolico univa ragazzi e ragazze, senza alcun “incidente di percorso” ma anzi con la vitalità che la complementarietà delle sensibilità imprimeva alle iniziative, gli riferimmo della spedizione settimanale che un folto gruppo di studenti compiva, su indicazione dell’arcivescovo Giovan Battista Montini, futuro Paolo VI, nella Bassa Milanese, l’ambiente descritto da Ermanno Olmi ne “L’albero degli zoccoli” per condividere la vita delle famiglie dei braccianti agricoli, veri e propri precari della campagna, gli parlammo della partenza di alcuni nostri compagni di liceo – ricordo per tutti Giancarlo Conci – per il Brasile, con la perplessità e talora la disperazione delle rispettive famiglie. Tutti fatti che ci colpivano profondamente perché scardinavano le nostre abitudini di bravi ragazzi e ragazze di città, aprendoci a un contesto sociale e planetario assolutamente impensabile e men che meno praticato.
Enzo Biagi ascoltò tutto questo con grande attenzione, con profonda partecipazione. Il fatto di ricordarmi tanti dettagli lo devo sicuramente all’incalzare delle sue domande, al suo desiderio di saperne sempre di più. Ed è stata proprio questa dinamica, dovuta alla sua capacità giornalistica, a spiegare il fatto che sia stato lui a intervistare noi e non viceversa. Ma, poco male. Visto che a ciò si deve l’intensità di un colloquio che per noi è rimasto indelebile. Resta un’ultima notazione, quella in cui Biagi ha “confessato” se stesso. Alla fine del nostro incontro ci ha espresso quasi una punta d’invidia: Biagi che invidiava noi, incredibile! Ma in realtà era un’espressione di umiltà. Ci ha detto, press’a poco: beati voi che state facendo queste esperienze così profonde ed autentiche, beati voi che avete incontrato certi maestri… Non ha aggiunto nulla, ma forse si sarà immaginato quali soddisfazioni ma anche quali amarezze avrebbe dovuto incontrare in tutto lo sviluppo della sua vita di professionista e di uomo.
Gianpiero Gamaleri: Professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi già a Roma3. Vicepreside e Coordinatore della facoltà di Scienze della Comunicazione all’Università Telematica Uninettuno. Giornalista professionista e dirigente del Consiglio di Amministrazione della Rai, attualmente è membro del CdA del Centro Televisivo Vaticano.