I motivi sono molteplici. Innanzitutto l’ambiente napoletano, o meglio il rione in cui si svolge la vicenda: tutto appare troppo caricato sia per quanto riguarda il linguaggio sia per la scenografia. La ricostruzione dell’epoca, infatti, ovvero la Napoli degli anni ’50, pur avendo richiesto un lavoro impegnativo, è apparsa estremamente artigianale e approssimativa, quasi finta e irreale.
Ricordiamo che la storia è incentrata sull’amicizia di due ragazzine, Lila Cerullo ed Elena Greco che si incontrano in età infantile e stringono un rapporto non immune da competizione tra di loro. Le due giovanissime interpreti Ludovica Nasti ed Elisa Del Genio, hanno superato la difficile prova sul set: sono apparse credibili nella recitazione e nell’atteggiamento, rispecchiando il prototipo dell’infanzia anni Cinquanta.
Intorno a loro un cast accettabile nella coralità di un racconto che ha avuto, però, moltissimi limiti. Innanzitutto il dialetto napoletano, troppo stretto ed antico, è risultato quasi del tutto incomprensibile. Bisognava far ricorso ai sottotitoli che hanno il demerito di deviare l’attenzione del telespettatore dalla vicenda non facendogli apprezzare i particolari dell’ambiente circostante e degli stessi protagonisti.
Si poteva optare per un linguaggio meno astruso considerato che la serie è un prodotto internazionale con la collaborazione della HBO.
Inoltre: nel rione così faticosamente ricostruito, nulla evoca le atmosfere napoletane, la città, le sue caratteristiche. Il paesaggio appare in una dimensione quasi irreale, addirittura fantastica. A ricordarci della napoletanità della storia, solo il dialetto.
Ma tutto questo sarebbe il male minore. C’è nella sceneggiatura e negli stessi dialoghi una grossolanità intrisa di violenza spesso gratuita che poteva essere stemperata. Soprattutto nella prima parte il linguaggio è pieno di parolacce e di volgarità e rischia di scadere nell’osceno: e siamo in prima serata.
Molti atteggiamenti dei ragazzini del rione nei riguardi dei coetanei sono stati caricati al massimo e, analizzati sotto l’ottica moderna, appaiono addirittura all’insegna di un bullismo evidente. Un esempio: l’aggressione a Lila da parte di un compagno e la reazione abnorme del padre della stessa Lila che punisce violentemente la figlia riempendola di botte e addirittura lanciandola dalla finestra.
In un periodo in cui la cronaca nera consegna quotidianamente ai mass media casi di violenza brutale sui bambini, questi elementi andavano rivisti sotto una luce più morbida.
Ancora: la scelta di immergere i personaggi in una atmosfera quasi plumbea, di un grigiore diffuso, non giova alla trasposizione televisiva appesantita anche dalla lungaggine e da una certa lentezza del racconto.Insomma il telespettatore ha avuto la sensazione di vivere in un tempo dilatato.
Infine: le due piccole protagoniste non riescono mai a sorridere, neanche quando giocano con le proprie bambole. Sono più mature della loro età ed assistono, impotenti alla violenza che le circonda. Una violenza che spesso evoca quella di Gomorra.
In compenso Lila ed Elena dovrebbero rappresentare la speranza per il futuro di una Napoli vecchia, ignorante, violenta, senza cultura. Loro così brave a scuola che desiderano studiare a dispetto dei veti dei loro genitori, costituiscono il filo di congiunzione tra il passato ed il futuro della realtà napoletana.
Il regista Saverio Costanzo ha avuto il merito di coordinare il cast riuscendo a gestire la recitazione, non semplice, delle due ragazzine e, in generale dei bambini.Ma finisce qui.
Gentile Signora, leggo la sua recensione e sento di doverle dire che non la condivido. Al di là della mia opinione sull’opera, che è diversa dalla sua, il motivo che mi spinge a commentare la sua recensione è un altro.
Da napoletana che ha lasciato la propria città 30 anni fa, devo dirle che la città di cui lei lamenta la mancanza nella serie televisiva non esiste, e forse non è mai esistita. Sarei molto curiosa di sapere quali immagini di napoletanità lei avrebbe voluto trovare e non ha trovato, e spero tanto che non si tratti della solita iconografia trita e ritrita, per la quale a Napoli c’è sempre il sole, il mare è bellissimo, la gente è sempre allegra e tutti sono buoni, in fondo.
E invece no, a Napoli piove, e ho trovato meravigliosamente emblematico il fatto che nel loro tentativo di fuga verso il mare le due bambine trovino, al di là del confine del loro rione, una landa desolata e tanta, tanta pioggia, e il mare non si veda neppure in lontananza.
Aggiungo che secondo me la ricostruzione del rione è volutamente surreale, direi teatrale, e grigia, ciò che lascia emergere le personalità degli interpreti.
Spesso, troppo spesso, la povertà a Napoli non è solo un fattore economico, è povertà di spirito, è mancanza di senso morale, è attribuire valore a cose, persone e sentimenti che sarebbero invece da disprezzare; e da questo tipo di povertà, come giustamente dice la maestra tanto, forse troppo, severa, si rischia di non potersi mai affrancare, perchè non se ne è consapevoli.
La violenza, anche quella, esiste; quello che lei definisce episodio di bullismo è la manifestazione di prepotenza di un aspirante camorrista, figlio di quello che oggi definiremmo boss del quartiere, che ritiene di dover vendicare la mortificazione subita dal fratello, e mi creda, il bullismo non c’entra niente perchè si tratta di qualcosa di più grave.
E così anche per la violenza dei padri sulle figlie, che per loro sono cose e che quindi si possono anche buttare giù da una finestra come un ferro da stiro, o che bisogna picchiare per dimostrare di essere uomini, come suo malgrado è costretto a fare il padre di Elena.
Succede ancora, tutti i giorni, e negarlo non aiuterà a far sì che non accada più.
Una violenza sicuramente gratuita, ma ciò che è davvero grave non è mostrarla in tv in prima serata, ma che, nel film come nella realtà, anche quella odierna, tutti vi assistano senza intervenire, spesso mostrando addirittura di approvarla e di condividerne le assurde ragioni.
Il dialetto, poi, mi lasci dire che non è antico, è sicuramente stretto, e magari difficilmente comprensibile per chi napoletano non è, anche perchè parlato da bambine e non da attori professionisti; ma mi lasci ricordare l’inizio de “L’albero degli zoccoli”, in strettissimo e incomprensibile dialetto bergamasco, eppure nessuno ha osato protestare o criticare il film per questo.
Fortunatamente, non è il dialetto sguaiato e volgare di Gomorra, pregevole prodotto televisivo che però ha lasciato intendere al mondo che Napoli sia solo camorra e delinquenza.
Un cordiale saluto
Rosaria Limonciello