Inoltre, ottimo cast, credibile sceneggiatura, lo svolgersi degli eventi senza sbavature. La prima puntata de Il nome della rosa, andata in onda lunedì 4 marzo su Rai1, non ha disilluso le aspettative della vigilia. Ed ha consegnato al pubblico di Rai1 un prodotto fruibile anche da coloro che non hanno letto il libro di Umberto Eco e non hanno visto il film del 1986 con l’ottimo Sean Connery nel ruolo di Guglielmo da Baskerville.
Il rischio era di cadere in una rappresentazione troppo erudita e quindi inaccessibile a coloro che sono lontani dall’universo descritto da Eco. Ma c’era anche il pericolo di trasformare l’Abbazia ed i suoi frequentatori in personaggi di un feuilleton medievale oscuro e mediocre che magari utilizzava un linguaggio ultra moderno simile a quello delle soap opera.
Umberto Eco è stato rispettato e, per la prima volta una produzione made in Italy non ha ceduto alle esigenze della fiction internazionale ma ha mantenuto i connotati italiani. Non era purtroppo accaduto con la saga dei Medici realizzata ad uso e consumo di un’audience prevalentemente statunitense.
Ha convinto anche Guglielmo da Baskerville interpretato da John Turturro nonostante il divo abbia una fisicità molto moderna. E’ apparso come un investigatore quasi alla Sherlock Holmes dotato di intuito formidabile e di capacità deduttive proprie del personaggio di Conan Doyle.
Non a caso il cognome che Eco ha scelto per il francescano era mutuato da un racconto di Doyle: Il mastino di Baskerville. La sua resa è stata solo leggermente inferiore a quella di Sean Connery.
Si evidenzia, inoltre, una notevole cura nei dialoghi la cui stesura è stata abbastanza impegnativa, con riferimenti filosofici ed esoterici, adeguati alle atmosfere del romanzo. Da segnalare anche una fedeltà al libro che, almeno nella prima puntata andata in onda, risulta maggiore di quella del film.
Anche la fotografia si è distinta per qualità nel mettere in evidenza le immagini fondamentali necessarie a sottolineare la continuità della narrazione soprattutto negli incubi rivissuti dal giovane Adso. In quest’ottica Il nome della rosa assomiglia ad un thriller e le tinte scure sono proprio quelle volute da Umberto Eco. Anche se abbiamo notato una maggiore propensione a scene grondanti sangue che evocavano quasi l’odierna cronaca nera.
Le parti più deboli sono state alcune ricostruzioni all’interno di Cinecittà. Tra queste il piazzale dell’Abbazia che sapeva tanto di polistirolo. Meglio gli altri interni tra cui le celle dei monaci e la famosa Biblioteca custode dei misteri del convento.
Il ritmo è stato esaltato dall’ottima regia di Giacomo Battiato che ha provveduto, tra l’altro, a potenziare ogni passaggio della narrazione ed a valorizzare i personaggi ognuno racchiuso nella propria maschera.
Non condivido affatto la recensione di Marida Caterini.
Il film che il regista Jean-Jacques Annaud ha diretto nel 1986 è tutta un altra cosa, a cominciare dalla voce narrante (del novizio Adso da Melk) che introduce i fatti delittuosi che via via si andranno a raccontare, così come la fotografia, le musiche, la recitazione, che da subito ci fanno nel
Gli attori che hanno interpretato, nel film del regista francese, l’abate Abbone, il bibiotecario Malachia, il decano Jorghe da Burgos, i due eretici dolciniani Remigio da Voragine e Salvatore hanno fattezze fisiognomiche verosimili e rispondenti a quelle che avremmo visto ai tempi del medioevo.
Tanto per fare un esempio, i giovani attori Damian Hardung, che nella serie TV interpreta la parte di Adso da Melk e Valentina Vargas nel ruolo della fanciulla senza nome, a ben vedere sembrano usciti dalla pubblicità del Mulino Bianco, lui con i capelli alla moda, privi di chierica, lei addirittura con ricci vaporosi appena “sfonati” dalla parrucchiera.
John Torturro, per quanto bravo, non è all’altezza di Sean Connery nel personaggio di Guglielmo da Baskerville.
In tale ruolo l’attore scozzese è decisamente più convincente di quello americano e di forte impatto sul pubblico per fisionomia telegenica e personalità carismatica, aderente in maniera sorprendente al frate francescano descritto da Eco.
Nel serial tv, per giustificare il numero delle puntate, vengono aggiunte e/o stravolte scene di fatti e situazioni che non si trovano nel libro di Eco.
Per chi ha “veramente” letto uno dei più pregevoli classici della nostra letteratura, l’adattamento made in Rai si palesa come banale, mediocre e insignificante proprio perché completamente avulso e decontestualizzato dall’opera letteraria cui ha fatto riferimento.