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Ma i punti di rottura con il passato sono emersi totalmente soltanto adesso. Innanzitutto la conduzione di Nicola Savino ha tolto alla narrazione, in tutte le fasi, quella patina di leggerezza conferita da Costantino della Gherardesca nelle prime due edizioni. Flavio Insinna, che ne era stato il successore, non aveva fatto fatica ad inserirvi una buona dose di mielosa retorica. Retorica che ancora esiste ma viene furbamente nascosta da una narrazione che pretende di aderire alla realtà, alla vita vera dei dipendenti delle fabbriche dove i proprietari vanno a lavorare sotto copertura. Ma tutto è spettacolarizzato come in un feuilleton nel quale il finale addirittura tocca le corde delle carrambate di raffaelliana memoria.
Nella quarta edizione all’esordio, ancora una volta tutto è edulcorato da un buonismo di facciata che, come un venticello sottile, soffia dall’inizio alla fine e si intrufola ovunque. Boss in incognito, ora più che mai, propone una realtà alla C’è posta per te, dove è protagonista un’umanità operosa, mai doma dinanzi alle difficoltà e alle sofferenze, un’umanità che fa sacrifici per sostenersi ed aiutare la propria famiglia. In quest’ottica sorge spontaneo il dubbio che i dipendenti delle aziende vengano scelti con determinati criteri: una precaria condizione personale sulla quale puntare per catturare le emozioni del pubblico.
Insomma retorica a dismisura che investe anche i ruoli genitoriali. Il primo boss sotto copertura, Guido Di Stefano, rampollo non più giovanissimo di uno dei fondatori del maglificio Gran Sasso, è separato ed ha cinque figli. I giovani sono intervenuti con frasi e atteggiamenti grondanti un esagerato sentimentalismo. E lo stesso boss si è varie volte commosso dinanzi alle confessioni dei propri dipendenti.
Una musica di sottofondo, lenta e insistente, sottolineava, in particolare, il racconto delle storie. Primi piani, abbracci, voci rotte da emozioni e pianti hanno commosso il Boss che, solo qualche minuto prima, aveva trovato delle pecche nella maniera di lavorare di alcuni dipendenti. E lo aveva fatto notare con incursioni fuori campo e con annotazioni che si prometteva di evidenziare appena riappropriato della sua vera identità.
Si è avuta, inoltre, la sensazione che lo stesso conduttore spingesse molto sull’acceleratore del sentimentalismo. In un quadro intriso di ingredienti molti simili ad una soap opera, si staglia la volontà di Rai2 di conquistare pubblico a tutti i costi. D’altra parte lo ha dimostrato il presenzialismo di Savino che ha presidiato i principali programmi della rete (e non solo) per pubblicizzare il docu-reality.
Bisogna, però, fare i conti con una certa stanchezza del telespettatore che non ha più nulla da scoprire in un format nel quale anche le storie evocano la vecchia, mai doma, tv del dolore.