Difficile per Luca Zingaretti, liberarsi della figura di Montalbano. Colpa anche della prima rete di viale Mazzini che ha mandato in onda all’infinito le repliche de Il commissario Montalbano. Il risultato è stato di identificare, nell’immaginario del pubblico, l’attore con il celebre personaggio creato da Andrea Camilleri.
Il pubblico lo ha capito: i risultati d’ascolto, sia pur soddisfacenti, 6.419.000 spettatori e il 22,5% di share, sono lontani dalle cifre che conquistava il commissario di Vigata.
Nonostante gli sforzi del pur bravo Zingaretti, abbiamo assistito ad uno spettacolo, purtroppo, mediocre. Mancavano la luce, il colore, l’atmosfera e l’intreccio coinvolgente delle trame di Camilleri. In particolare mancava l’originalità.
La miniserie ha evidenziato ritmi spenti, oltre che lenti. La trama, per molti aspetti, è apparsa scontata e prevedibile, farcita di luoghi comuni e con una rappresentazione molto approssimata, a volte grossolana, della delinquenza organizzata. Alcuni criminali sono stati presentati con tratti quasi animaleschi. Poco credibile l’interpretazione di Luisa Ranieri nella parte del maresciallo dei Carabinieri che lavora con il giudice Lenzi. La donna è anche l’amante del magistrato, ma tutto appare avvolto in atmosfere costruite e senz’anima.
La situazione non è migliorata nella seconda parte della fiction quando l’indolente giudice meschino è scosso dall’assassinio del collega e carissimo amico Maremmi e incomincia a riprendere con vigore le indagini. In questa fase è comparso ancora una volta il fantasma di Montalbano e sembrava proprio che il commissario di Vigata stesse svolgendo il solito lavoro al quale il pubblico è abituato. Un Montalbano che, a differenza del consolidato personaggio di Camilleri, si arrampicava sugli specchi, in quanto mancava la materia prima, ovvero una buona sceneggiatura.
Le storie di Camilleri hanno il pregio della imprevedibilità, della potenza drammaturgica. E la regia di Alberto Sironi ha trasferito, nella trasposizione televisiva, tutta la grandezza letteraria dei testi. Carlei, il regista de Il giudice meschino, per quanto bravo e dalla mano sapiente, non è riuscito a dare smalto e vigore ad una storia che, forse, aveva bisogno di un altro interprete.
Anche il rapporto di Lenzi con il figlio Enrico di otto anni, non ha convinto, mancava il pathos: questa parte della fiction è sembrata inserita quasi forzatamente nel contesto. Sicuramente la presenza del bambino ha un’importanza nella seconda parte della vicenda, quando il giudice riscoprirà il valore della paternità.
La prima parte si è conclusa con il rapimento di Enrico da parte della criminalità: ma ci si è arrivati quasi all’improssivo, è sembrato un colpo di scena realizzato ad arte per chiudere la puntata e creare aspettative nel pubblico.