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Grande, ad apertura ufficiale dell’Expo 2015, questo momento musicale ed artistico, approntato da specialisti di livello molto alto, un livello che ha toccato dei culmini non solo nell’ambito musicale, ma in quello registico e visivo.
Nel parterre invidiabile erano il precedente Presidente della Repubblica Napolitano e signora Clio (il Presidente Mattarella, presente nella mattinata, doveva far fronte agli impegni politici), il Presidente del Consiglio Renzi con moglie e una figlia adolescente, i rappresentanti del mondo politico onorevoli Pisapia, Maroni e molti altri, accanto ad intellettuali ed artisti che hanno alzato il tono dell’evento, ma non nel senso della mondanità, sibbene in quello della levatura intellettuale.
L’impatto iniziale è avvenuto con l’allestimento di Raimund Bauer delle mura del Palazzo Imperiale cinese, come muraglia rossastra irta di chiodi, a suggerire il senso oppressivo di una realtà sociale impenetrabile ed ostica, che le figure sceniche comiche dei ministri Ping, Pang e Pong, ingolfati in ridicolizzanti costumi pagliacceschi, non riuscivano ad attutire.
Straordinaria la soluzione scenografica di sopraelevare il trono dell’Imperatore Altoum (tenore Carlo Bosi), isolato in un alto oculo entro una prospettiva sgomentante dal basso in alto, che accentuava paurosamente la dimensione oltreumana del sovrano, immobile, biancovestito, recante nelle due mani un sottile e arcuato bastone rosso, cruento simbolo di potere assoluto.
I costumi di Andrea Schmidt-Fuetter, bellissimi per l’Imperatore, erano per il Coro e la Corte accentuatamente sovratemporali, con cappottoni e cappelli anni ’30 (anche per le donne) sui lunghi abiti cinesi, e con una maschera posta sui loro occhi, forse ad evidenziare la falsità della sottomissione ad un potere sanguinario. Poco gradevole e inadatto alla figura fisica era il ‘costume’ della piccola Liù (soprano Maria Agresta), che entrava in scena accompagnando il vecchio imperatore spodestato Timur (padre di Calaf, ancora invisibile fra la folla), sgraziatamente fasciata da un largo e informe accappatoio bianco, penalizzante anche se ella impersonava una schiava.
Subito si profilava la personalità del principe Calaf (tenore lettone Alexsandrs Antonenko), fortissima come quella di Turandot da cui era subito affascinato, il quale chiedeva all’Imperatore di affrontare gli enigmi posti dalla figlia,per concedere la sua mano ai candidati, destinati alla morte in caso di sconfitta.
Tutto il II atto, dedicato agli enigmi, vedeva rarefarsi l’azione nel clima di paura, di attesa, di terrore attorno alla ferma decisione di Calaf (“Gli enigmi sono tre, una è la vita”), su una scrittura musicale di Puccini nuova e ben poco descrittiva, che egli compose lentamente e con molti ripensamenti, lasciandola incompiuta quando morì a Bruxelles nel novembre 1924, per cancro alla gola.
La figura della crudele Turandot (soprano svedese Nina Stemme) è stata magnificamente vestita da Schmidt-Fuetter con un costume corazza nero, con antenne e scaglie, quasi un macroscopico insetto, ed il contrasto fra il gelo di lei e l’accensione di Calaf (“Ti voglio ardente d’amore”) correva anche sul filo delle stupende luci rossastre e azzurrine di Duane Schuler. “Nessun dorma”, la frase di Calaf che prelude alla vittoria – magnificamente interpretata da Antonenko, tenore assai noto specie per la sua carica interpretativa – è ormai un ‘topos’ della grande lirica italiana: mentre, ormai nel III atto, la morte di Liù sotto tortura per non svelare il nome di Calaf, che ella amava, diventava il perno della trasformazione e umanizzazione di Turandot.
“Chi pose tanta forza nel tuo cuore?” ella chiedeva a Liù che resisteva alla tortura senza parlare. “Principessa, l’amore…”. “L’amore….” questa ripetè, come ridestandosi da un lungo letargo.
Dopo la morte di Liù, Puccini non andò più avanti, lasciando tuttavia più di 30 pagine di appunti e temi musicali. Toscanini volle fortemente che su questi qualcuno completasse l’opera: la scelta cadde – ma fu tormentatissima – su Franco Alfano e la “Turandot” fu da allora sempre eseguita con questo completamento, rimanendo tuttavia aperta su ciò un’accesa disputa.
Nel 2002, ne fu incaricato dal Festival delle Canarie il compositore Luciano Berio – in realtà alla domanda sul perché avesse scritto per “Turandot” un suo finale, rispose: “Perché mi piace, il precedente non mi piaceva” – ed è quello che il M° Chailly ha eseguito per l’Expo (lo aveva interpretato anche nel 2002).
Viva l’attesa per questo brano musicale, lungo 16 minuti e sapientemente composto sugli appunti pucciniani sia legati alle parole, sia strumentali, in cui Berio ha tenuto conto di temi pertinenti la medesima opera, ed anche di spunti ed eco soprattutto wagneriani (Puccini aveva scritto alla fine della partitura: “da qui, Tristano”).
Realmente egli ha guardato alla modernità della creazione pucciniana, lì dove – ad esempio nella scena degli enigmi – la scrittura si prosciuga, piega verso monosillabi orchestrali: insensibile è infatti lo scivolare entro la scrittura di Berio, leggerissima nei suoni striduli, trasparente, che accompagna il cadere della veste animale di Turandot, incapace ormai dopo il celebre bacio di uccidere Calaf.
Stupenda la regìa di Lehnhoff che manteneva in scena il cadavere di Liù, da cui si originava l’umanzzazione della principessa, e stupenda l’uscita di scena – lenta e nel silenzio – dei due amanti, verso il nuovo destino, senza trionfalisni .
Una “Turandot davvero come la avrebbe voluta Puccini. Altissimo il grado di bravura di tutti gli interpreti, anche della Agresta dalle dolcissime emissioni vocali, e pieni di interviste a specialisti e di curiosità gli intervalli. Lo spettacolo verrà replicato alla Scala il 23 maggio.
Qui The opening , il concerto e le opere eseguite.