La definizione di serie “generazionale” o di film “generazionale” è, da sempre, una spada di Damocle per chi ha in mente e produce questo genere di progetti. In pochi, pochissimi, sono riusciti veramente a intercettare il gusto dei giovani e a conquistare, di conseguenza, una platea ampia.
Federico Moccia ci riuscì a metà degli anni 2000, con i suoi libri e i relativi film, Tre metri sopra il cielo e Ho voglia di te. L’esempio più lampante riguardante gli ultimi anni, invece, è rappresentato sicuramente da Braccialetti Rossi che, però, era ambientato in un contesto circoscritto e particolare nel quale pochissimi potevano davvero identificarsi.
Dopo la visione delle prime puntate di Baby, ci si accorge, sostanzialmente, di due fatti oggettivi: il primo riguarda il titolo, quel Baby che richiama esplicitamente il caso delle baby-squillo dei Parioli che sconvolse l’opinione pubblica; Baby, molto semplicemente, non è la cronistoria di quegli eventi ma lo spunto per trattare, ad ampio raggio, i disagi giovanili. Chi si aspettava una docu-fiction alla Presadiretta, resterà deluso.
Il secondo fatto oggettivo positivo è che i social network, presenza rilevante nella vita di tutti i giorni e, quindi, impossibile da non tenere in conto, vengono trattati correttamente, ossia come un mezzo e non come protagonisti sostitutivi.
Questo è un problema, purtroppo, che riguarda anche i programmi televisivi: basta dire “social” e ci si vanta di essere giovani. No, non è così.
Mettiamolo in chiaro: la presenza dei social in Baby è massiccia, e quindi anche un po’ ruffiana, ma i protagonisti rimangono sempre chi semplicemente li usa ossia i personaggi.
Baby, inoltre, ha ottime possibilità di rivelarsi una riuscita serie trasversale perché anche gli adulti si ritagliano la loro bella dose di disagio. L’intelligenza di Baby, infatti, sta anche nel far capire allo spettatore che l’origine dei malesseri dei protagonisti giovani, semplicemente, è celata nei comportamenti dei loro genitori, positivi o negativi.
Anche la trasgressione è ben dosata: non c’è nulla di gratuito o eccessivamente morboso.
La mano di sceneggiatori giovani, i GRAMS, il collettivo di autori composto da Antonio Le Fosse, Giacomo Mazzariol, Marco Raspanti, Re Salvador ed Eleonora Trucchi, si vede.
Paragonandola con un’altra serie Netflix, Tredici, Baby ha il merito di non spettacolarizzare il disagio giovanile al punto da renderlo affascinante. In Tredici, la seconda stagione inizia con una specie di “pubblicità progresso” che invita i ragazzi a rischio a chiedere aiuto: quello spot è una parziale ammissione di colpa, né più, né meno.
Baby non sta correndo questo rischio perché l’empatia che si può provare con le due protagoniste, ottimamente interpretate da Benedetta Porcaroli e Alice Pagani, è di ben altro tipo: c’è il desiderio di carpire i motivi delle loro gesta, non di emularle.
La serialità italiana dedicata ai giovani, quindi, deve ripartire da qui, sperando che si riesca, nella medesima impresa, anche in chiave comedy.