Vi abbiamo visto appunto, nell’anteprima del Fiction Fest di Roma, le “radici” di Kunta Kinte, il giovane nero nato nella seconda metà del Settecento in un villaggio nella foresta della Guinea, addestrato alla battaglia secondo le migliori tradizioni della sua gente, speranzoso di frequentare l’università della lontana e antica Timbuctu, ma rapito da una tribù ostile alla sua, venduto ai mercanti portoghesi di schiavi, trasportato oltre atlantico dove un americano, esaminatigli denti, orecchie e complessione fisica, lo compra come se fosse un buon cavallo. Diventerà il difensore dei suoi simili e dei valori che la “deportazione” vorrebbe strappare loro: religione, legami familiari, usanze, riti, canti. Lo farà pur nel destino di schiavitù. E pure se il disumano viaggio nella stiva della nave portoghese, insieme ai corpi dei suoi simili incatenati e sdraiati in asfissia sul legno, coperti del proprio sangue e del proprio vomito, è di quelli che annullano qualsiasi capacità di reagire.
L’ambientazione ha lo stile dei migliori documentari (ricordate l’antesignano Mondo Cane di Gualtiero Jacopetti?), la realizzazione del villeggio di Kunta Kinte è articolata e calzante. L’addestramento nella giungla si impone per la precisione dei particolari (ai giovani in procinto di diventare guerrieri si insegna come cavalcare una bestia selvaggia, come tirare la lancia, come attraversare un fiume, come affrontare prove di resistenza, e credete, sono immagini infinitamente più credibili dei dilaganti reality show estremi). Anche le cosiddette storie parallele – quelle di facile presa sul pubblico come l’innamoramento di Kunta Kinte per Jinna, che sarà preda dei negrieri come lui – sono stringate e funzionali all’evoluzione del plot.
Ed è superlativa la prova del protagonista, l’inglese Malachi Kirby, che ha preso il posto di Levar e che mette il suo atletico corpo al servizio delle prove di sopportazione fisica alle quali la sua sfortuna lo sottopone mentre usa bene il volto per esprimere i più disparati sentimenti. I suoi occhi incendiari sono di quelli che non si dimenticano. Specie nelle inquadrature in primissimo piano che li ritraggono nel buio della prigione-stiva. Fanno pensare alle facce e alla sofferenza dei migranti 2.0, quelli trasportati dall’Oriente e dall’Africa dai “negrieri” odierni.