Si tratta di una coincidenza, che dovrebbe portarci a riflettere. Il 5 ottobre esce in sala ‘120 battiti al minuto‘ di Robin Campillo sul movimento di attivisti di Act Up-Paris, associazione pronta a tutto pur di rompere il silenzio generale sull’epidemia di AIDS e sensibilizzare l’opinione pubblica sulla malattia che da anni miete vittime nel Paese. Nel caso di questo lungometraggio ci si trova ai primi Anni ’90 in Europa; in When We Rise si parte dal 2006 per esser catapultati subito negli Anni ’70 (precisamente nel 1972), ma l’uno non può non richiamare l’altro, riflettendo anche su come le cose non siano mutate di moltissimo a distanza di tempo. Ci preme subito dire che ogni componente della serie, dal cast artistico a quello tecnico, è di alto livello. In anteprima abbiamo potuto vedere i primi due episodi, ma ci è sembrata palese la qualità.
Ogni personaggio, da quelli principali ai secondari, è scritto con profondità e reso in maniera esaustiva sullo schermo. Rilevante la struttura della puntata (costituita da due episodi): (immaginiamo sarà a turno) c’è qualcuno che si racconta, quasi fosse un’intervista in presa diretta, conferendo così ancora maggiore verosimiglianza al racconto. Da qui comincia il salto nel passato. A guidare lo spettatore una voce: e se nella prima puntata era principalmente maschile, vi anticipiamo che nella seconda parte, sarà una femminile, per poi lasciar spazio a quella di un uomo, quasi fosse una staffetta. La scelta di optare per questo taglio ci è apparsa anche simbolica, quasi a voler trasmettere ciò che ancor più nella seconda parte si esplica: non ha senso lottare per il proprio genere divisi, ma uniti c’è più possibilità di ottenere i diritti che spettano.
“Dobbiamo mantenere un basso profilo e aspettare che il mondo arrivi al passo con noi”: è solo una delle tante battute che, rifuggendo dalla semplicistica retorica, fanno toccare con mano la sofferenza, le censure, le lotte concrete che questi uomini e donne hanno compiuto, magari sin da ragazzini.
Il pubblico si ritrova a seguire, soprattutto, Cleve Jones (a cui dà corpo prima Austin P. McKenzie e poi Guy Pearce), Roma Guy (cui prestano il volto Mary Louise Parker da adulta ed Emily Skeggs in più giovane età) e Ken (interpretato da Michael K. Williams e Jonathan Majors a seconda dell’età). Il primo, preso coraggio, rivela la propria omosessualità al padre, ma questi la considera una malattia per cui vorrebbe lobotomizzarlo. Di contro il ragazzo deciderà di partire alla volta di San Francisco. Roma la conosciamo nei primi minuti in Africa, da cui parte. Sarà lei a prendere a cuore la causa delle donne omosessuali escluse dal movimento femminista. Il terzo co-protagonista, invece, è un reduce dal Vietnam che affronterà la discriminazione razziale all’interno dello stesso movimento omosessuale. Potrebbe risultare molta carne al fuoco, ma non è così, non c’è storia che non venga sviluppata nella dimensione che merita e c’è una grande sensibilità registica.
Impreziosiscono il cast il premio Oscar Whoopy Goldberg, Rachel Griffiths (‘Brothers and Sisters’), Denis O’Hare (‘Dallas Buyers Club’, ‘Milk’) e Rosie O’Donnell (‘Amiche per sempre’). Le restanti puntate sono firmate da Dee Rees, Thomas Schlamme e Dustin Lance Black.
Non è semplice far capire quegli anni a chi non li ha vissuti, tanto più così in prima persona e in prima linea, ma When We Rise lo fa, con coraggio, risvegliando anche in generale il desiderio di combattere per ciò di cui si ha diritto. Post visione sorge, infatti, quasi spontaneo domandarsi: perché non si è più capaci di combattere così per ciò che si desidera e che sarebbe giusto venga riconosciuto? La serie docet: “ogni generazione ha il proprio scontro epico da affrontare”. Il viaggio si conclude all’ottavo episodio arrivando ai giorni nostri.