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Da allora a oggi il passo è breve, vero Gregoretti?
“Già. Perché proprio in questi giorni mi trovo impegnato a Torino in un esperimento teatrale che mi piace molto. La messinscena in otto puntate dei Tre Moschettieri di Dumas, un librone che conobbi proprio da bambino. Le puntate sono realizzate da altrettanti drammaturghi e registi, tra i quali Gigi Proietti, Piero Maccarinelli, io, il polacco Talarczyk e l’ideatore, Beppe Navello”.
Ideatore in che senso?
“La prima edizione di questa maratona su Athos, Porthos, Aramis e D’Artagnan andò in scena nel 1986 a L’Aquila, dove Navello era direttore del Teatro Stabile. Ora la riproposta di questo gioco teatrale sul palcoscenico dell’Astra, uno spazio restaurato in occasione delle Olimpiadi invernali di Torino, un toccasana per la città”.
Perché?
“Perché non è più la metropoli-fabbrica che conobbi quando ne diressi lo Stabile, dall’85 all’89. E’ diventata allegra, leggera, briosa. E questo Dumas disarticolato e riunificato come in un divertente puzzle ne sembra lo specchio. Anche gli interpreti contribuiscono alla ventata fresca. Vengono, dopo selezione, dalle massime scuole di formazione, di Genova, di Milano, dell’Accademia d’arte drammatica di Roma. Insomma, il fior fiore della studenteria attoriale italiana. Che poi le repliche registrino il tutto esaurito mi dà una soddisfazione non trascurabile. Sa, io a Torino sono legato. Oltre alla guida dello Stabile, ho curato qui regie liriche al Regio e programmi televisivi”.
Ugo Gregoretti dietro la macchina da presa
E veniamo all’impegno che le ha dato la notorietà. Un impegno legato alla letteratura e che le ha imposto accurate letture.
“Fin dal mio esordio in quelli che si chiamavano teleromanzi, lanciati dalla Rai negli anni Sessanta. Cominciai con Il Circolo Pickwick di Dickens. Una storia comicissima nella quale mi tuffai con entusiasmo. Ma consapevole che era in certe situazioni un po’ invecchiata. Allora inventai una chiave più attuale per alcune pagine. Rimanendo però così fedele allo stile dello scrittore inglese che nessuno si accorse della farina del mio sacco. Insomma, fu un lavoro di svecchiamento, non un tradimento”.
E cominciò la divulgazione della narrativa attraverso il tubo catodico.
“Un lavoro, quello di adattarla al linguaggio televisivo, che mi ha accompagnato per anni. Ma rendevo ogni titolo con un metodo differente. Per esempio per Le Tigri della Malesia di Salgari usai il metro della parodia e pensi che cosa ne venne fuori con Gigi Proietti nei panni di Sandokan, letteralmente preso per i fondelli. Però il tono canzonatorio non piacque troppo a Viale Mazzini, che si apprestava a varare l’operazione Sandokan-Kabir Bedi. Insomma, la mia riduzione fu censurata, nascosta, nel timore che sembrasse una presa in giro preventiva del kolossal con l’attore indiano”.
Alla presentazione di un libro
Allora cambiò tattica?
“Divenni serio. Affrontando cinque libroni altrettanto gravi, come I misteri di Napoli, L’assedio di Firenze, La freccia nel fianco. Fu la serie intitolata Romanzo popolare italiano e mi costò un grande sforzo di lettura e di riduzione: mille pagine da condensare in un’ora! In certi casi operai una lettura strutturalistica, individuando e mettendo in evidenza gli snodi del plot. Vede, lo strutturalismo negli anni Settanta era di moda e io in fondo in fondo riuscii a fare il verso anche a questa branca della critica letteraria”.
Ma gli autori stranieri li ha amati?
“Molto, specie i russi. Considero Le uova fatali di Bulgakov un capolavoro. Oltretutto mi permise l’uso degli effetti speciali che allora cominciavano a spopolare. Me la spassai a rendere visivamente l’invasione delle rane nell’istituto nel quale lavora il protagonista Persikov e a inseguire i risvolti delle invenzioni attuate nel settore della zoologia nella Russia degli anni Venti che Bulgakov prende in burletta”.
Ugo Gregoretti nella sua abitazione
Ha conosciuto scrittori?
“Zavattini, dirò subito. Era un grande scrittore, anche se deve la sua fama alle sceneggiature per il cinema. Io però gli resi omaggio appunto come narratore, accendendo i riflettori della tv sulla antologia dei suoi racconti brevi, molte volte finiti nel calderone del cinema. E lui, che soffriva di essere nell’ombra come scrittore, ebbe con me una profonda consuetudine aprendomi tutto il suo mondo poetico. Ma con lui ingaggiai anche battaglie di idee. Combattevamo, nel cinema, la censura oppure l’uso mercantilistico che se ne faceva”.
Con Achille Campanile ha operato in teatro.
“Misi in scena il suo Ma cos’è questo amore?, romanzo surrealistico. Egli era divertente quanto i suoi scritti, anzi di più”.
E i contemporanei?
“Camilleri, un contemporaneo di 92 anni che lega bene con me che ne ho 86. Beh, impersoniamo il Gatto e la Volpe in una rilettura del Pinocchio che è stata musicata da mio figlio Lucio. Una proposta operistica comica per ragazzi nella quale il burattino di Collodi viene sottoposto a processo perché querelato appunto dal Gatto e la Volpe. E’ stato rappresentato al Massimo di Palermo e andrà poi all’Auditorium Rai di Torino. Mi ha divertito tuffarmi in questa nuova prova. Io e Camilleri non siamo in scena ma compariamo a inizio spettacolo in un video camuffati dai due imbroglioni che si beffano di Pinocchio. Recitiamo versi scritti da entrambe, un’introduzione all’azione vera e propria”.
Ovviamente un classico come Collodi non poteva mancare nella sua libreria. A proposito, come l’ha sistemata nel suo appartamento?
“I libri sono sparsi dappertutto. Però, poiché abito nel cuore di Roma, in una casa antica dalle pareti spesse, ho ricavato degli scaffali in un ambiente che chiamo La Galleria. Ci sono tutti i volumi che possiedo, da quelli di quando ero ragazzino a quelli acquistati da giovanotto a rate. Ma, non sazio di ciò, mi sono divertito ad acconciare come una biblioteca anche l’armadio dei miei indumenti. Sugli sportelli ho fatto dipingere il dorso di innumerevoli libri, con i titoli in bella vista, titoli autentici, dico. E mi diverto un sacco quando chi mi viene a trovare vuole prenderli. Allora apro il guardaroba che, invece di pagine stampate, contiene giubbetti, cappelli, sciarpe, maglioni”.