{module Google ads}
Il locale giornale ‘La Voce interiore’ pubblicò la seguente critica al concerto: “Le prime note del grande tenore causarono nel pubblico un’emozione improvvisa, un’emozione rimasta tale fino alla fine del concerto…. Caruso dà alla voce una tonalità drammatica e intensa. La sua voce è sicura e virile, ricca di sfumature, ma anche di una meravigliosa chiarezza”.
Ed è proprio così: l’artista dava alla sua voce ferma e virile – ricordiamo quella invece soavissima e angelica di Beniamino Gigli – sfumature molteplici le quali nascevano dal suo sentire: ma anche una chiarezza immune da qualunque impurità, da qualunque oscillazione dell’intonazione, che poteva scaturire solo da uno studio intelligentissimo e straordinariamente attento.
Era attentissimo infatti alla tecnica, insisteva sulla respirazione (“la nota, se i polmoni non sono pieni, va incontro a variazioni tonali”) e sull’attacco (“l’apertura della gola è basilare e non coincide affatto con l’apertura della bocca”), tanto che egli dedicò alla didattica anche un libro.
Caruso! Mito del canto tenorile italiano partito proprio dagli USA, non da Napoli: perché? Le gelosie in campo artistico sono fatali: a Puccini, già affermato con la “Bohème”, accadde che la prima della bellissima “Butterfly” alla Scala venisse terribilmente fischiata.
Caruso firma autografi
Caruso era nato a Napoli: figlio di un fabbro, col quale lavorò ancora adolescente per mantenere tutta la numerosa famiglia, cantava già nelle chiese, ed in S.Anna alle Paludi il parroco per un funerale lo volle nella “Messa” di Mercadante, per cui presto il tenore passò nei cafés chantant, nella Birreria Monaco, al Gambrinus, sinchè fu preso a lezione gratuita dal M° Guglielmo Vergine.
Questi però – in caso Enrico fosse stato scritturato nei teatri napoletani – gli chiese il 25% del compenso nei primi cinque anni. Furono perciò gli anni della fame, che Caruso mai dimenticò. Ma la carriera era di fatto cominciata, di pari passo con lo sviluppo della sua voce bellissima, robusta, dolce, flessibile che egli mantenne immutata fino alla morte. Cantò nei teatri di Napoli, al Mercadante, al Bellini, al Teatro Nuovo, infine nel 1898 debuttò alla Scala con “La Bohème” pucciniana. diretto da Toscanini.
Iniziarono, con le prime 12 mila lire al mese, i guadagni, che via via divennero favolosi. Ed allora Enrico Caruso, affermatosi nel repertorio italiano dell’Ottocento, si decise ad affrontare nel 1901 il Teatro S.Carlo di Napoli, cui teneva moltissimo e in cui si attendeva di essere accolto con lo stesso amore: aveva 28 anni e cantò “L’Elisir d’amore” di Donizetti, a 3000 lire a recita (un compenso molto alto). Fu invece un fiasco architettato e malevolo.
Il tenore davvero infallibile sino all’anno della morte, venne tacciato di aver cantato la parte tenorile da baritono: una vera coltellata per Caruso, che giurò che non avrebbe mai più cantato a Napoli.
Caruso canta in Pagliacci di Leoncavallo
Così fu, talchè quando – tornando in Italia dalle tournées in America – il Maestro volle comprarsi una casa, la scelse a Bellosguardo presso Siena,dove è oggi il suo Museo. Questo sì sarebbe stato pane per i denti di una TV interessata alla vita artistica di un grande; ma allora ci pensò il cinema, con “Enrico Caruso” di Giacomo Gentilomo nel 1951 (il tenore Mario del Monaco cantava nel ruolo), che con semplicità faceva dire al M°Vergine nelle prove: “Bravo Enrico, il tuo singhiozzo è stato proprio naturale”, e Caruso rispondeva: “Non l’aggio inventato, Maestro, m’è venuto spontaneo”.
La fama di Enrico Caruso nei primi due decenni del Novecento raggiunse, anche diretto da Toscanini e sempre nel repertorio ottocentesco, un vertice altissimo, specie nell’America del nord e del sud, e lui che fra i primi utilizzò le registrazioni, per l’aria “Vesti la giubba” dai “Pagliacci” di Leoncavallo raggiunse – allora – il milione di dischi venduti.
Seguirono le incisioni delle più di 500 canzoni napoletane amatissime da Caruso quanto la sua Napoli, ma lui era un semplice e affermava: “Ho sofferto tanto nella vita, e se canto questo viene in luce, perciò la gente piange: chi non sente, non può cantare”. Aveva sofferto anche in amore: nutrì dal 1897 un affetto forte per Ada Giachetti, donna già sposata che gli diede due figli, Rodolfo ed Enrico junior. Ma il rapporto finì nel 1906 in malo modo, poiché ella – con un altro uomo – cercò di avere danari da Caruso, ed egli dovette sostenere una causa contro la madre dei suoi figli. Un nuovo amore invece si concluse col matrimonio nel 1918, quello per Doroty Benjamin da cui il tenore ebbe la piccola Gloria. All’inizio del secondo decennio del Novecento,
Teatro San Carlo a Napoli
Caruso ebbe problemi alla gola, anche un’emorragia in scena. Pur seguitando a cantare senza danni, fu poi operato nel dicembre 1920 ai polmoni. Venne apposta a Sorrento, lui che non solo non cantò più a Napoli, ma nemmeno in Italia. Sentiva fortissimo l’amore per la sua terra: volle sbarcare a Napoli, all’hotel Vesuvio ormai divorato dal male che lo avrebbe ucciso a 48 anni, e pianse: “Dorothy, portami fuori al sole, voglio vedere Napoli…”, disse poche ore prima di morirvi, e la Provvidenza in questo lo ha accontentato.
La sua vita è stata romanzata anche nel secondo film di Richard Thorpe del ’51 (interprete Mario Lanza). Rai1, gli ha dedicato la nota fiction “Caruso, la voce dell’amore” col tenore Gianluca Terranova, nel settembre 2012: e per smentire il fatto che i vedovi di Caruso si trovino solo in America, va ricordato che Rai1 in prima serata, a luglio, manda in onda ogni anno dalla Marina Grande di Sorrento, lo spettacolo musicale “Una notte per Caruso”, che comprendeva l’assegnazione del Premio Enrico Caruso al giovane e palpitante tenore toscano Vittorio Grigolo.
Sì, la vita del grande Enrico continua, ed il futuro lo aspetta.