Ecco la griglia nella quale si sviluppa “Sole cuore amore”, il film di Daniele Vicari presentato oggi, primo italiano, nella Selezione Ufficiale della Festa di Roma, prodotto da Fandango in collaborazione con Rai Cinema, nelle sale il prossimo anno. Un film duro, nonostante il titolo che riprende un tormentone di Valeria Rossi datato 2001, uno di quei motivetti nazionalpopolari canticchiati da gente semplice, che deve spesso tirare a campare faticosamente e allora si aggrappa a un ritornello e, se è capace, a un sorriso.
Eli ci riesce, a sorridere, per i tre quarti della pellicola. Ha il volto di un strepitosa Isabella Ragonese, che abbiamo visto al cinema diretta da Luchetti (“La nostra vita”, Nastro d’argento come migliore attrice non protagonista) e Virzì (“Tutta la vita davanti”) e sul piccolo schermo in un episodio de Il Commissario Montalbano e nel tv movie Un mondo nuovo. Vuole agguantare le leggerezza, Eli, ce la mette tutta. Scherzando con i clienti del bar mentre si destreggia tra cappuccini e cornetti, sdrammatizzando le tensioni col padrone del locale, carezzando i figli quando li trova ancora svegli nell’appartamentino sovraccarico di giochi, letti, biberon, padelle. A cucinare ci pensa il marito, un convincente Francesco Montanari (in tv è stato il Libanese di “Romanzo criminale”). I due si amano, sono complici, ma il tran tran logora impercettibilmente la voglia di agguantare l’allegria.
Poi c’è Vale. Che rivendica una “sorellanza” con Eli, ma il film non ci spiega perché. Che le tiene i figli il pomeriggio ma che poi si isola in allenamenti parossistici, uno schermo tra lei e il mondo. Lo sfondo è una metropoli che stritola. La nostra metropoli con la corriera che si ferma per un guasto sulla via Pontina mentre ancora non sorge il sole. La metro dove si sta tanto stretti da perdere il fiato. O il padrone del bar che paga in nero 800 euro al mese salvo farli diventare 700 per gli inevitabili ritardi di Eli, messa a lavorare sette giorni su sette. O ancora la cliente rozza che umilia le ragazze dietro al bancone. Vicari, sensibile ai temi della denuncia politica e civile (“Velocità massima” sulle corse clandestine, “Diaz”, sul G8 di Genova) punta il dito sempre più, man mano che il suo film va verso l’acme. Quando Eli, alla quale il cuore si logora giorno dopo giorno per lo stress e la fatica, non si ferma, lei che va sempre di corsa, sui sedili dell’ultima metro e anche dopo, quando si chiudono i cancelli e le telecamere interne inquadrano nel grigio della subway il suo unico cappotto, rosso.
La forza della pellicola sta nella resa degli attori. Della Ragonese e di Montanari abbiamo detto. Di Vale-Eva Grieco va lodata l’espressione legnosa, caparbia nella danza, illuminata solo di fronte ai bambini dell’amica. Però le lunghe inquadrature mentre danza più che essere centripete, funzionali al plot cinematografico, risultano centrifughe, rasentando il gratuito. Le riscatta la colonna sonora, firmata da Stefano Di Battista, questa sì contrappunto opportuno. E la sceneggiatura scivola talvolta nel didascalico come, quando, rivolta alla madre, la figlia maggiore di Eli, una dodicenne appena, commenta: “Se diventare donna significa fare la vita che fai tu, meglio morire”.
Merito di Vicari comunque è squarciare l’andazzo degli ultimi in uno sfondo che in fin dei conti accomuna l’hinterland capitolino a quello di tante metropoli lontane: nei suburbi americani come nelle balieues, nelle periferie inglesi come in quelle dell’est europeo.