Arbore si diverte e fa divertire, mentre “sfoglia” il suo album di cinefilo e di regista. Solo un velo, nell’ora e mezzo di incontro con il pubblico, proprio quando evoca la sua Mariangela. Una nostalgia che la Festa del Cinema gli ha fatto forse acuire in questi giorni. “Ha dato ragione alla mia vita. Gli ultimi anni sono stati di passione ardente”, aveva detto due giorni fa in un’intervista al Corriere della Sera. Al Parco della Musica, oltre all’annuncio di una trasmissione sulla protagonista di “Todo modo” e di “Mimì Metallurgico”, ha voluto che si trasmettessero due clip con lei. Una tratta da “La classe operaia va in paradiso” a fianco a Gian Maria Volontè, l’altra da “Pap’occhio extra”, il docu sul film del 1980, il primo firmato dallo showman di Foggia. Qui c’è un siparietto di Renzo e Mariangela su retroscena del set, cioè lo schiaffone vero mollatogli dall’attrice presa in giro mentre declama “La figlia di Iorio”. “Diteglielo a Iorio che non ci piace”, la battuta estemporanea di Arbore nella pellicola girata con tutto il cast dell’Altra Domenica, Benigni compreso. Il corollario è stata appunto la sberla della Melato. E ha fornito ad Arbore l’occasione di definire il genere che in tv, alla radio e al cinema ha praticato di più: la goliardia. “E’ l’accostamento dell’alto al basso, insomma è come quando futuri ingegneri, medici, letterati scherzano con il basso e possono farlo proprio perché sono colti. Un esempio nel cinema? Amici miei di Monicelli, la pellicola tra tutte che avrei voluto dirigere di più”.
Ma cosa è il grande schermo per Arbore? “Tradisco la mia età se affermo di essere uno di quelli che guardava il muro, come dice Frassica, perché non avevamo la televisione e dunque solo con il cinema potevamo far lavorare la fantasia. Noi siamo stati allevati coi film del maestri del neorealismo, De Sica, Zavattini. Il primo film a cui ho pianto è stato “Umberto D”. Maturavamo con questo cinema straordinario. E poi c’era l’altro cinema, Totò, di cui l’anno prossimo ricorre il cinquantenario della morte. Vorrei ricordarlo, come ho fatto in occasione dei 25 anni. Raccoglieva tutti i tipi di umorismo: il nonsense, i doppi sensi, era animalesco o burattinesco, è stato uno dei miei idoli quando arrivai a Roma e tutti lo consideravano ancora un comico da farsa. Con la mia Cinquecento girai per ore sotto casa sua senza avere il coraggio di suonare il campanello e salutarlo”.
E gli altri protagonisti della settima arte? “Per De Laurentiis ho addirittura scritto una canzone, tanto amavo i capolavori che produceva. Ho conosciuto poi tutti i grandi registi, Fellini, Visconti, Antonioni e gli autori della commedia, Salce, Monicelli, Corbucci. Da loro ho imparato tutto. Molti mi sono amici: come Pupi Avati, mio coetaneo con il quale condivido anche la passione per il clarinetto (anzi siamo in tre, le tre A, perché c’è pure Allen). E poi Alberto Lattuada. Con lui mi trovai al Cairo, al primo e unico festival del cinema italiano in Egitto. C’erano Claudia Cardinale, Giovanna Ralli, Mariangela. Andammo in un bellissimo cinema. Ma gli organizzatori non avevano l’inno nazionale egiziano e per farlo sentire misero un 78 giri. A un certo punto il disco si incantò e ripeteva sempre lo stesso pezzo, uno salì sul palco e lo fece smettere con una pedata. Il film era “Cuore di cane” con Cochi Ponzoni. L’operatore sbagliò rullo e all’improvviso il protagonista da cane diventava uomo. Lattuada si alzò in piedi oscurando lo schermo e gridando “la mia metamorfosi, la mia metamorfosi”! Venne preso per un pazzo da tutti gli egiziani che iniziarono a gridargli contro. Giovanna Ralli si scompisciava dalle risate e noi per salvarlo andammo dal proiezionista che aveva la cabina chiusa perché in Egitto se il film non piaceva menavano all’operatore e gli facemmo capire che aveva sbagliato rullo. Ma lui rimise la prima bobina. Ci fu un’insurrezione generale”.
Ride Arbore, e ride il pubblico dell’Auditorium. E va avanti con gli aneddoti, le citazioni, i retroscena. Per esempio di quando tirò Benigni dentro “L’altra domenica”. “Registravamo il programma a casa mia e dissi a Roberto “che fai la domenica?” Mi rispose “Niente” “e allora vieni nel mio programma, ti faccio fare il critico”. Lui venne a casa e gli dissi “tu come tutti i critici sei andato a vedere La febbre del sabato sera, ma non ci hai capito niente e forse neanche l’hai visto”. E lui cominciò ad arrampicarsi sugli specchi, rispondendo alle mie domande in modo assurdo. Per esempio: non l’ho visto perché sabato avevo la febbre…Registrammo 7 minuti e lui mi fece “ho capito, ora registriamo”. E io “no, mandiamo questo, va benissimo”. Facemmo 35 critiche, tutte inventate, ci siamo divertiti un sacco”.
E Arbore regista come è nato? “L’altra Domenica fu un grandissimo successo e volemmo chiuderla con L’Altra domenica una tantum. Registi e produttori cominciarono a parlarmi del film, io non volevo fare la solita cosa della banda in vacanza, ma una notte mi sognai il soggetto giusto: Il Papa mi aveva chiamato per fare Televaticano. Lo dissi al mio carissimo amico e cosceneggiatore Luciano De Crescenzo e ne uscì fuori il primo film che prendeva un po’ in giro non la religione, ma il Catechismo che si insegna da bambini, l’Ultima Cena, i miracoli… Ora ci sono stati i bellissimi lavori di Sorrentino e Moretti, ma noi facemmo un film col sosia di papa Wojtyla. Ottenemmo di girare alla Reggia di Caserta grazie alla direttrice, convinta da un mio forbito baciamano. Non conoscevo le maestranze e non sapevo che il regista non deve guardare nell’obiettivo della macchina da presa. Come direttore della fotografia avevo il grandissimo Luciano Tovoli di Professione Reporter che cercava di spiegare a me che sono ignorante come faceva un piano sequenza. Io non capivo e gli dicevo “basta che si veda”.. Il primo macchinista che mi sorprese a guardare nella mdp mi disse “Arbore,stai a fa’ due film in uno, er primo e l’ultimo”.
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Invece arrivò il secondo, “FF SS ovvero che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene”. “FF SS non sta per Ferrovie dello Stato ma per Federico Fellini Sud Story – ricorda Arbore – Io e De Crescenzo nell’avvio della pellicola siamo in cerca di idee. Ecco che passiamo sotto casa di Fellini, un semaforo rosso ci trattiene..” La clip strappa nuovi applausi: Fellini deve fare la pipì ma la Masina si dilunga in bagno. Lui volta le spalle alla finestra del suo studio e una folata di vento davvero “felliniano” fa volare in strada i fogli di una sua sceneggiatura che Arbore e De Crescenzo arraffano, mentre il semaforo rosso diventa un’ampolla con il sangue disciolto di San Gennaro, che ha fatto il miracolo di fornire l’aiutino ai due. “Usammo un sosia di Fellini che gli somigliava molto, tanto che in certi posti in cui andavamo lo scambiavano per lui. Quando feci vedere a Federico per la prima volta il film alla Gaumont mi guardò storto e mi disse “non ci siamo, non ci siamo”. Per me fu una coltellata al cuore. Poi ho saputo da Sergio Zavoli, grande presidente della Rai e suo amico, che ce l’aveva con me per due motivi: i capelli del sosia e il fatto che nel film gli scappava la pipì. Ma soprattutto i capelli lo crucciavano perché aveva un po’ l’ossessione della calvizie. Mi chiedeva sempre: “mi hai fatto coi capelli?”. Giulietta fu molto carina e mi disse “non te la prendere, Federico è fatto così, tiene molto a questa cosa dei capelli”. Poi facemmo pace. Anche i grandi hanno le loro debolezze”.
E infatti ecco le penultime clip. Quella giocosa di “FF SS” con un personaggio che al luogo comune “c’è una nebbia da tagliare col coltello” è inquadrato proprio armato di lama a fendere la coltre. E l’altra tratta dall’incipit di Amarcord, allorché Federico bambino si avvia a scuola avvolto da una nebbia “metafisica” come solo nell’immaginazione felliniana può avvenire. Il commiato è con la canzone cantata da Pietra Montecorvino: “Sud”. “E’ diventata una bandiera – celia Arbore – La cantarono allo Stadio quando il Napoli vinse lo scudetto”.