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Ha voluto essere la dimostrazione musicale dell’inesistenza di una separazione fra la musica colta e il pop, il rock e quant’altro, in nome di una unità di fondo di tutte le espressioni musicali, in nome di “una derivazione diretta” reciproca, che il conduttore televisivo rivendicava, e non solo lui.
Si poteva dissentire da questa posizione teorica, ma la realizzazione del progetto è stata tale che i modelli, gli esempi, gli scambi – scelti con estrema cura – hanno fatto la qualità.
La serata è riuscita in pieno. L’ Orchestra e il Coro dell’Arena di Verona diretti dal giovanissimo Andrea Battistoni (a soli 24 anni ha già diretto l’Orchestra della Scala) per la parte classica, in cui ha realizzato effetti di colore apprezzabili, e da Peppe Vessicchio per il pop – ma non di rado si scambiavano i ruoli – avevano a che fare con 101 strumentisti, 157 coristi, 40 ballerini, 200 artisti: showgirls, creature della bellezza accanto a Bonolis erano Belen Rodriguez (in rosso) ed Elena Santarelli (in bianco).
Le star del pop si alternavano ai divi del belcanto secondo un rigoroso filo conduttore, la cui presenza permaneva evidente proprio nelle diversità reciproche, e nonostante che il trentottenne valoroso tenore lirico Vittorio Grigolo avesse invece alquanto ‘mollato’ il suo ruolo ufficiale, per sposare rock e amplificazioni con Kerry Ellis (non è mancato però il suo pucciniano “E lucean le stelle”, sia pure con molto e forse troppo colore).
Una lode vada al sapiente, rodato, straordinario apparato scenografico dell’Arena, peraltro concordato con gli ideatori tutti dell’edizione televisiva (ponti, scale, due maxischermi), ossia alla gabbia metallica dove si arrampicavano i Montecchi e Capuleti in lotta nel “Roméo et Juliette” di Gounot, ai semicerchi riservati ad un Coro che i costumisti avevano meravigliosamente approntato per le varie ambientazioni storiche, e le cui soluzioni visive spesso sconfinavano nell’onirico (le fasce azzurre e gialle delle famiglie avversarie fra le armi sonanti, i tendaggi dalle tinte stridenti per il “Barbiere di Siviglia”, gli scuri sài conventuali per il “Nabucco”).
Su tutto la regìa areniana di Stefano Trespidi (quella televisiva è di Roberto Cenci), a volte davvero geniale, che nel Coro del “Nabucco” ha inserito dei prigionieri ebrei seminudi, allucinati, quasi internati di Auscwitz redivivi, con effetto stupendo.
Le lodi debbono andare anche alle voci: a Mario Crassi, il baritono Figaro in “Largo al factotum”, a Marco Vratogna nel ruolo di Scarpia, soprattutto al giovane e fiorente soprano uruguaiano Maria Josè Siri, che ha affrontato il celebre brano già della Callas, “Casta diva” dalla ‘Norma’ belliniana, mostrando il possesso delle estensioni vocali, della densità di voce e della calma espressività del famoso e difficile ruolo.
La Callas: la voce è qui ricomparsa nella proiezione del passaggio nel film “Philadelphia” (1993) di Jonathan Demme, in cui ella canta “La mamma morta” da ‘Andrea Chénier’ di Giordano: esempio registico di aiuto psicologico in momenti tragici della grande musica lirica, che ben lungi dall’essere realtà di nicchia, non ha mai perduto questo suo grande ruolo.
Ecco in proposito uno spazio dedicato a Donizetti e alla canzone napoletana (gli si attribuisce “Te voglio bbene assaje”), accostato alla canzone di Mina “…e se domani io non potessi”: fino alla bomba finale dell’organizzazione e dell’impostazione teorica dello spettacolo, sempre spettacolare, quella dell’inatteso giovanissimo vocalist Federico Paciotti, con la chitarra elettrica, che solista sul palco ha dato la sua voce non impostata al celeberrimo “Nessun dorma”, dalla ‘Turandot’ di Puccini, a dimostrare con forza l’unicità senza steccati della musica. Di tutta la musica, purchè sia di qualità.
Qui la diretta della serata.