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Si è vista sul red carpet e nello Studio Borgna del Parco della Musica, nell’ambito della Festa del Cinema mai come quest’anno aperta a opere televisive e anche al dibattito sul mercato e sulle prospettive dell’audiovisivo. E si può vedere anche oggi, al cinema Eden a partire dalle 16 nello Studio Tre dello stesso Parco della Musica di via de Coubertin.
Parliamo della serie israeliana intitolata “Fauda”, presente nella sezione ufficiale della kermesse capitolina, realizzata nel 2015 e andata in onda nel cuore più problematico del Medio Oriente riscuotendo premi e grandi consensi di pubblico e di critica. A ragione perché fa agire due storie parallele e che si intrecciano, una che ha per protagonista Doron – comandante sotto copertura di un’unità del Mista’arvim, l’antiterrorismo della Israel Defence Force e dell’Israel Border Police – l’altra con al centro Abu-Ahmed nominato “The Panter”, attivista di Hamas ricercato appunto da Doron e dal suo team.
“Fauda” in arabo significa caos e lo sceneggiato dipinge appunto il disordine epocale che domina quella stretta striscia di terra dove convivono popolazioni acerrime nemiche. Il pregio della serie, ciò che le conferisce autorevolezza, è di giustapporre i protagonisti senza demonizzare una parte rispetto all’altra. Certo, Doron agisce per salvaguardare la sicurezza della propria gente, ma dall’altra parte della barricata la tragica vita di Abu-Ahmed e della sua famiglia dà spazio anche alle ragioni del crescente odio nei confronti di Israele. E dell’equilibrio dell’operazione culturale e politica testimonia anche l’uso di attori israeliani e palestinesi, tutti efficaci, da Lior Raz, nel ruolo di Doron e coautore del lavoro, a Hisham Suliman, Shadi Mar’I, Laetitia Eido, Itzik Cohen, Yuval Segal.
Una scena della serie tv
Spiega Assaf Bernstein, il regista: “Non pensavo di riscuotere tanto successo perché il tema trattato è molto delicato. Invece la serie è stata accolta favorevolmente sia dai coloni israeliani che da Hamas. Il cinema non può trasformare la realtà ma un effetto c’è stato. Nell’opera si trovano scene d’amore e drammatiche girate in arabo e questo sta cambiando la stessa percezione della lingua. Molti della nostra nazione hanno perfino cominciato a studiarla. L’ambizione che coltiviamo è quella di rendere giustizia all’umanità dei palestinesi e degli israeliani cercando di raccontare la verità”.
E ricche di nodi esistenziali sono molte scene che intervallano quelle di pura azione, come il tentativo di Doron di catturare, anche a costo di uccidere, il nemico ricoverato in ospedale dopo un attacco del team di Mista’arvim alla sua abitazione. Quel nemico inafferrabile che riesce a beffare gli israeliani scappando con l’aiuto di una dottoressa del nosocomio che lo carica sulla propria vettura invece che sull’ambulanza bloccata invano dopo uno spettacolare inseguimento dalla squadra speciale ebrea. Ebbene, Bernstein dà spazio anche ai sogni, alle incertezze, alla stanchezza dei protagonisti per una vita sempre sul filo del baratro. Ecco la moglie di Dorom.
Inconsapevole dell’attività del suo uomo, che possiede un’azienda vinicola, gli chiede una sera, in un momento di tenerezza, di mollare tutto, il proprio paese e la propria attività, per andare a vivere lontano, dove poter finalmente ballare, uscire, viaggiare senza paura. Ed ecco la ragazza palestinese ingaggiata per far scoppiare una bomba dentro un locale affollato di giovani. Non dovrà essere una martire, le spiegano, dovrà solo piazzare l’ordigno e scappare prima della micidiale deflagrazione. Ma lei, che al suo preparatore dice di desiderare dei figli, un futuro, sceglie di non evitare, con la fuga, l’inferno che ha provocato, morendo accanto ai ragazzi che un momento prima dell’innesco dell’ordigno aveva visto ballare e bere Coca Cola.
Realizzare la serie è stata una scommessa. Svela Liat Benasuly, la produttrice: “Abbiamo girato l’anno scorso in un villaggio arabo. Molti avevano paura di recitare perché temevano di essere considerati conniventi del governo israeliano. Ma ci sono attori che hanno affrontato la parte dei terroristi palestinesi armati dagli stessi israeliani”. Un coraggio che testimonia la voglia di tanti di cambiare pagina.
Qui l‘incontro con Jude Law.